“Dave, non fare figli” – recensione di David Lynch: The Art Life

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Ho dovuto bere molte birrette per farmi passare i 90 minuti d’anticipo necessari a trovare un posto, ma “David Lynch: The Art Life”, ieri sera, mi è proprio piaciuto.

Diffido sempre di libri e pellicole che riassorbono gli artisti nella loro biografia, come se l’immane sforzo da essi fatto per separarsene, o almeno per separarne e riconfigurarne le molecole, meritasse d’essere oltraggiato dalla nostra bacata indole aneddotica, che ogni volta va in cerca di facili eziologie, in un rimestare trito e bituminoso preso a smuovere – sempre – le stesse quattro cose: infanzie difficili, droghe, amori e malattie, lì dove il gomito d’intesa con chi ti è a fianco può schiudersi con la dignità di un prolasso rettale in qualcosa del tipo “Ah, lo vedi? Ecco perché Cuore Selvaggio!”.

Con David Lynch il rischio era ancora più alto, perché alle tante schiere di apologeti – forgiatisi per anni in vane e pugnaci ricostruzioni del “sensodi” –  non restava che la fonte biografica, un po’ come ai bimbi madidi e queruli non resta che la fontanella dei giardini pubblici. Facce capì, insomma.

Per fortuna, invece, niente biografia. O meglio: biografia ne troverete a profusione, ma organizzata (e disorganizzata) in modo tale da non prestarsi ai piccoli puzzle delle tante ermeneutiche da passeggio, cui di solito mancano giusto un paio di pezzi per filare a meraviglia. Prima di tutto, infanzia strepitosa: i giochi, i prati, i giardini e le villette dell’Idaho, i genitori amorevoli che non litigavano mai, la madre che favorisce la sua passione per il disegno, gli amici con cui rotolarsi felice nel fango. Tiè.

Ma a mancare, in fondo, è proprio il cinema, che il documentario – pure – è per intero, e fino in fondo. Si arriva, cronologicamente, alle sole porte di Eraserhead, che Lynch saluta come la sua esperienza cinematografica più… (ecco non ricordo, forse con la sua vocina stridula dice “più divertente”, o “più libera”, o vai a sapere. “Più”, comunque). E dopo Eraserhead basta, fine del documentario. Più di un castrato singulto, probabilmente, fra gli apologeti di cui sopra, che nel portafoglio – assieme alla lista della spesa – portano da anni l’elenco delle questioni irrisolte da Twin Peaks in poi.

Il cifrario segreto, insomma, rimane segreto, soprattutto perché non sembra affatto un cifrario. Nelle sigarette e nelle parole di Lynch, “Dave” per il padre che vedendone le creazioni gli consiglia di non avere figli e per gli amici che in auto gli fanno notare d’essersi fermato al centro della superstrada, il suo rapporto con l’arte non contempla mai la categoria della rappresentazione e della ri-presentazione.  Una radicale polpastrellicità, che viene fuori dal suo modo di disegnare e abitare la pittura, ci porta in una dimensione molto bambina (e condivisa, non a caso, proprio con una bimba), in cui il “cosa mai vorrà dire” si volge subito in un “cosa vorrà fare” e, al limite, in un più sordo “cosa potrà fare”, sul dorso del quale i corpi proliferano in maniera del tutto ludica, senza traccia di incubo. Il legno, i weekend passati con il padre a sistemare e inventare cose, le tele, i colori, il casino, i mostriciattoli, gli animaletti sezionati, i garage pieni di cianfrusaglie, le piccole collezioni, i buchi e i fili e le muffe e le cose che si piegano. Si tratta sempre di “arrivare a qualcosa” ma in un senso estremamente letterale, che coinvolge l’arte nella sua più intima motilità, o forse la motilità stessa come arte. Le materie gli stanno davanti come mondi di cui saggiare polpa e grana, e in tutto questo le forme espressive vi intervengono non potendo che intervenire, certo, sempre pregne – tuttavia – della loro subalternità all’unica cosa che conta davvero: vedere che succede se. Siamo lontani anni luce dal professionismo di chi segua un corso di fotografia perché vuole arrivare a fare una mostra fotografica, o di chi imbracci una videocamera perché vuole fare un film. Lynch racconta con entusiasmo di quando Los Angeles gli apre le porte per lavorare ai suoi progetti, consentendogli di abbandonare Philly (“la New York dei poveri”, come la chiama lui) e di chiudersi in una stalla (una stalla, sì) per quattro anni a pastrocchiare il suo cinema. Ma anche in quel caso, tuttavia, il cinema sembra soprattutto “destinato a capitare”, epifenomeno di un lavoro sul mondo da cui, a un certo punto, deriva come materiale di risulta. Accade insomma che la pittura abbia bisogno di muoversi, e il cinema passa di lì, occasionalmente utile alla causa.

Il documentario, che spesso fa anche ridere, restituisce una figura tutto sommato umile, di poche parole e molto tabacco, presa in conversazioni  per le quali linguaggio e interlocutori sono ancora in fase d’allestimento. Non se ne esce con tante chiavi di lettura, ma con Dave, che sta lì con sua figlia, seduto al tavolino, a pastrocchiare qualcos’altro.

La frase dell’Occidente

Non è uno scontro tra civiltà, è vero. Gli attentatori sono nati e cresciuti nell’Europa del Diritto e della Rivoluzione Francese.

E allora, se di civiltà si tratta, è una civiltà che inciampa in se stessa.

Così come trovo pietosi i giornali che ieri titolavano “Questo è l’Islam” o “Strage islamica”, trovo altrettanto vaporose, anche se meno indegne, le spiegazioni panassolutorie che – da sinistra – dissolvono tutto nella grande vicenda del conflitto fra Nord e Sud del mondo, fra chi detiene e chi no, fra chi si permette il lusso dei diritti e quelli che ne pagano il prezzo all’altro capo del mondo senza poterli a loro volta maturare.

Questa volta lo schema non regge.

“Loro”, questa volta, siamo noi. E per davvero. È tutta “roba nostra”, interna, dalla A alla Z. Facciamocene carico e basta.

E per farcene carico tocca chiedersi come mai una proposta del genere riesca a fare breccia, o addirittura a maturare in relativa autonomia, nella testa di persone che in vita loro hanno visto più Mc Donald che minareti, più chiappe che burqa, più XBOX che edizioni del Corano. Cosa la rende appetibile? La follia di queste persone? Troppo semplice, troppo comodo, troppo “farmaceutico”. Sociopatici e psicopatici, ovviamente, non mancheranno ma le reclute europee dell’Isis cominciano a essere un tantino troppe per pensare di affidarsi a salvifiche secchiate di Torazina.

E allora eccoti Salvini.

Toglie la mano dal culo di una leghista compiacente (chiappe), appoggia il doppio cheeseburger (Mc Donald) vicino al suo Joypad (XBOX), mette in pausa “Milan – Napoli” e si prepara a rispondere.

Perché lui una risposta ce l’ha. Oh sì che ce l’ha. La colpa, per Salvini e Salvinisti, ricadrebbe su di un’Europa, trattata rigorosamente alla stregua di un ESSERE mitologico dalle oscure e lascive volontà, che non avrebbe più le palle di difendere la propria identità e le proprie radici (cristiane, e che altro se no?), un’Europa – in ogni caso – che non affermerebbe più nulla di suo e sarebbe ormai diventata un inerte ricettacolo di flussi migratori incontrollati, attraverso i quali – come un virus – si diffonderebbe il germe dell’estremismo. Wow! Fate attenzione, gente. Il periodo di incubazione pare piuttosto breve: vi addormentate come devoti mariani e vi svegliate Salafiti. E avete fatto così in fretta che l’arabo, ancora, non l’avete imparato, quindi brancolate nel salotto di casa posseduti da una lingua che blaterate senza conoscere e schiacciate forsennatamente il telecomando della tv cercando di far esplodere Enzo Miccio.

No, ovviamente non è nemmeno questo. Perché ok inciampare, ma non così.

Il corto circuito è più ampio.

La cultura del Diritto entra in crisi quando viene meno l’orizzonte pratico su cui esercitarla. Stabilire il carattere “incomprimibile” dei diritti della persona significa, cioè, assicurarle gli strumenti minimi per realizzarsi, strumenti che tendono però a diventare inutili nella misura in cui l’orizzonte fattivo di questa realizzazione si sposta gradualmente in avanti, fin quasi a sbiadire o – in alcuni casi – a rendersi indisponibile, invisibile, irraggiungibile. E allora i diritti della persona, e la storia gloriosa della loro conquista, restano fra le mani come frasi sospese, a cui manca un complemento, una chiosa.

E qui, forse, scatta il corto circuito più significativo.

Perché il tratto più caratteristico della cultura occidentale è, da sempre, il moto a luogo, l’inesausto rilancio di un lasso – fisico e/o immateriale – da riempire di attesa, desiderio, speranza, volontà, progetto. Se questo lasso viene meno, se dal lasso si passa cioè al suo collasso, se non si riesce più a concepire il progetto o a dare credito allo spazio in cui questo dovrebbe svilupparsi e realizzarsi, ecco che sorge un problema. È un problema strutturale, inconscio, addirittura “tecnico”, che riguarda in eguale misura la cultura liberale e quella d’ispirazione e memoria socialista – entrambe vocate al moto a luogo, entrambe tese alla realizzazione della persona, poco importa – in questa sede – che tale realizzazione si specifichi nell’individuo o nella collettività.

Qualcuno una volta ha detto che il senso non conosce il proprio “fuori”. L’insensatezza, l’assenza di senso, non esiste, non si dà. A un senso che non sta più in piedi, semplicemente, se ne sostituisce un altro, che funzioni meglio. E in questa nostra Europa, che non dispiega più alcun progetto e non sa più come chiudere la sua frase, quella proposta omicida, terroristica e assassina non manca affatto di senso, non è minimamente folle. Finiamola con i riferimenti alla cecità, al buio, all’insondabile, all’arcano, all’ommioddiochecazzo. Quella proposta è lucida, perfetta: o ce ne rendiamo conto oppure dovremo rassegnarci a vederla, veramente, dilagare. Tanto per cominciare funziona meglio, molto meglio di qualunque Cultura del Diritto. Perché anziché offrire la prospettiva di un’altra e diversa realizzazione, esposta a frequenti fallimenti, sostituisce il senso della realizzazione con il senso del martirio, il moto a luogo con la fine, il rilancio con il crollo, dando a tutti questi termini accezioni e qualifiche positive. In questo, per altro, è aiutata dal fatto che molte di queste nuove “reclute” sono già “sacrificate” (crisi, disoccupazione, indigenza, ignoranza, degrado, quello che vi pare) e mancavano solo di qualcosa che riconoscesse al loro sacrificio, o a un altro sacrificio (il martirio), un valore ineguagliabile, tale da trasformarli da reietti (o poco più) in eroi (o poco meno).

E funziona meglio anche perché offre loro la possibilità di percepire un radicamento che l’Occidente, evidentemente, preclude loro. È un radicamento paradossale, che li connette idealmente e di fatto a una causa illocata, priva cioè di luogo, ma anche sgrammaticata, buttata nel mondo come un tiro cieco di dadi su un tavolo unto e che, tuttavia, è più autentica – sulla loro pelle – delle comunità europee in cui sono nati, in cui sono cresciuti, in cui si trovano e di cui, con ogni probabilità, sentono di non fare più parte.

In tutto questo, mi pare ovvio, l’immigrazione conta ZERO, e forse pure meno.

Da questo punto di vista l’Italia corre un rischio fin ora sottovalutato, e in realtà assolutamente peculiare. L’astensione e la fluidità evidenziata dagli italiani nelle urne, dove i pesi si spostano con la velocità di esseri alati, tradisce la fragilità del credito di volta in volta concesso al politico di turno (Grillo, Renzi, Salvini). Alla diffusione del malaffare si accompagna una diffidenza sempre più aspecifica nei confronti della politica e questa diffidenza, proprio perché aspecifica, rappresenta un terreno molto fertile nel quale una proposta di radicale e adolescenziale purezza, come quella terroristica, può attecchire.

Anche perché, vale la pena di ricordarcelo, il nostro baluardo al momento è Angelino Alfano, considerazione che dovrebbe suggerirvi una certa indulgenza nei confronti di chi – avendoci pensato – sentisse l’impulso di agguantarsi a piene mani i gioielli di famiglia.

Certamente, come diceva il premier norvegese dopo Utoya e come ha ribadito oggi anche Gino Strada, occorre reagire con “più apertura e più diritti”. La Cultura del Diritto è per definizione espansiva, altrimenti perde il tratto esplorativo che la rende una straordinaria ricerca sull’uomo e si trasforma in qualcosa di più asfittico e tremulo, velocemente archiviabile. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, insomma, è una torsione liberticida del tipo di quella che si è avuta negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, con il Patriot Act. Dobbiamo però sincerarci che questa “apertura” non venga solo ampliata ma anche percorsa e riempita di contenuti. Apertura, insomma, “de che”? Per pensare, soprattutto, cosa? Secondo quali logiche e con quali obiettivi? E dobbiamo preoccuparci, inoltre, che questi diritti non vengano solo ribaditi ma anche fruiti, esercitati, favoriti, tradotti nei progetti delle persone e riflessi nei loro risultati.

Diciamola in maniera più brutale. Nel mercato delle idee, la Cultura del Diritto non può accontentarsi di essere “giusta” (qualunque cosa questo significhi): deve tornare a essere conveniente.

Perché ora come ora corriamo il grosso rischio di sembrare dei cretini che fanno la spesa, la lasciano in macchina, si chiudono in casa e muoiono di fame senza capire perché.

La parte malata, al momento, siamo noi. I terroristi no: purtroppo quelli stanno da Dio.

HAMAS E ISRAELE. DUE PAROLE.

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Hamas non è un’organizzazione paramilitare di stampo religioso.

Hamas è anche questo, certo. Ma non lo è anzitutto. E non lo è, certamente, per noi.

Per noi Hamas è soprattutto una parola, una di quelle parole dal suono magico, dal potere evocativo, il nome del cattivo, l’eco della Shari’a, il verso dell’orco. La sua sola emissione presentifica una bolla indivisa cui ascrivere tutto il male possibile, perché tutto il male possibile inferto ai palestinesi ne risulti – di riflesso – giustificato, corrisposto in qualche modo dall’abiezione della vittima, inaderente a qualunque responsabilità, giacché mai si è responsabili delle sventure che occorrono all’orco. Perché dal nostro punto di vista non si tratta di sventure e di un orco, a ben vedere, tutto interesserà fuorché il suo punto di vista.

Un’organizzazione paramilitare può avere un punto di vista. Un orco no.

Israele, d’altro canto, non è uno Stato sovrano.

Israele è anche questo, certo. Ma non lo è anzitutto. E non lo è, certamente, per noi.

Per noi Israele è soprattutto una parola, una di quelle parole dal suono magico, dal potere evocativo, il nome del buono, l’eco della Shoah, la voce dell’eroe. La sua sola emissione presentifica una bolla indivisa cui ascrivere tutto il bene possibile, perché tutto il male che ne deriva ne risulti – di riflesso – contagiato, volto al bene dalla santità del carnefice, adeso alla nostra empatia, giacché sempre si vibra di quello stesso sacrosanto gesto vibrato dal braccio dell’eroe. Perché dal nostro punto di vista si tratta proprio di un gesto sacrosanto e di un eroe, a ben vedere, tutto interesserà fuorché la violenza e il sangue che quel gesto, a fin di bene, comporta.

Uno Stato Sovrano può avere delle colpe. Un eroe no.

Ecco perché non vogliamo chiederci cosa mai penseremmo di quanto accade ai palestinesi se accadesse, che so, ai portoghesi, ai greci o agli olandesi. Se accadesse, che so, agli israeliani.

Perché l’orco è sempre lo stesso. Perché l’eroe è sempre lo stesso. Perché qualunque altro scenario è rubricato alla voce carnevale, e non è più serio né degno d’attenzione.

Perché nel mondo delle fiabe certe cose sono scritte e dette una volta per tutte e come sanno tutti i bambini si rileggono ogni sera nello stesso modo.

Il nostro immaginario impresso nella loro carne, sottratto a qualunque traduzione.

“I palestinesi? Possono morire tutti” (gli accademici, l’inconscio collettivo e l’avamposto occidentale)

gaza

10 morti.

Non posso parlare del conflitto Israelo-palestinese. Non ne so abbastanza.

40 morti.

Posso parlare, però, dell’opinione pubblica italiana, nella quale sono immerso da lungo tempo.

64 morti.

Non parlerò, però, delle fazioni tifose, che puntualmente saltano fuori in mancanza di altre competizioni che consentano loro di schierarsi da qualche parte. Non credo sia necessario spendere parole per chi difende Israele in nome del suo status di democrazia persa nel mondo brutto e cattivo dell’Islam o per chi indossa una kefiah e solidarizza con un fronte armato a vocazione religiosa di cui in realtà non condivide (e non sa) quasi nulla. Considero queste posizioni ugualmente cretine e dei cretini non parlo.

115 morti.

Parlo più volentieri di una terza categoria. Gli osservatori. I politologi da toilette, quelli che seduti sulla tazza sfogliano l’Espresso, Limes, il Corano (comprato il giorno prima perché avere in casa solo la Bibbia, in questa fase, li faceva sentire sporchi dentro) e dopo aver azionato lo sciacquone escono dal bagno nella sardonica e amara consapevolezza d’essersi affrancati dalla litigiosa superficialità del mondo.

120 morti.

Li chiameremo “accademici”. Gli accademici non parteggiano. Scuotono la testa perché sanno che la loro preziosa visione delle cose, basata su un approfondito esame della posta in gioco, è minoritaria per definizione. Cosa sanno realmente del Medio-Oriente? Praticamente nulla, in realtà. Ma si stanno documentando e, scambiando i mezzi con il fine, eleggono il documentarsi a obiettivo primario della civiltà.

140 morti.

È un vero peccato che Palestinesi e Israeliani, dopo tutto, non si fermino un momento per andare al bagno e documentarsi un po’ su loro stessi.

150 morti.

Ovviamente gli accademici parlano malvolentieri dei morti, perché fare retorica sul dolore non sarebbe degno.

160 morti.

E allora parte il pippone solonico su quanto sia facile tifare per questo o per quello e su quanto invece sia più difficile, ma doveroso, comprendere le ragioni profonde che stanno dietro a quel conflitto. A questo punto il fiume si sta già ingrossando ma la piena arriva in fretta: la geopolitica, gli USA, i califfati, le primavere arabe, il Mossad, la Russia, la crisi Siriana, lo scenario iraniano in veloce mutamento, e la Giordania? Oh ma la Giordania?, la Bibbia, il Corano, Hamas, il Likud, l’Olocausto, la guerra dei sei giorni, il Sionismo, la diaspora, la fuga dall’Egitto, Mosè, il ruolo perduto dell’Italia nell’area mediterranea, ti ricordi Craxi e la crisi di Sigonella?, D’Alema che dopo tutto, Andreotti che con Arafat si andava via che era una meraviglia, e spiace – alla fine – non trovare un’ultima rubrica che metta in evidenza come il regime alimentare osservato dalle due fazioni non aiuti a fornire al cervello le giuste vitamine per attivare l’enzima della pace.

230 morti.

Facile dire no alla guerra.

Facile condannare Israele.

Facile gettare fango su Hamas.

Per carità.

L’accademico – se solo gli prospettate una di queste cose – se ne ritrae schifato che manco un gelato alla merda e torna subito a leggere qualcosa sugli sport praticati nel tempo libero dagli arabi israeliani, un aspetto della vicenda che in questo clima da stadio rischiava di passare sotto silenzio e che invece è ovviamente fondamentale per capire di cosa stiamo parlando. E giù letture. Alla fine bisogna ricorrere al Guttalax per avere di che chiudersi in bagno senza destare sospetti. L’unica voce di spesa che supera quella delle riviste specializzate, in questa fase, è quella per la carta igienica.

250 morti.

Ora, volete mettere in crisi un accademico? Chiedetegli una priorità. Andate lì e gli dite: “Tesoro, senti, puoi uscire un attimo dal bagno? Allora, qua ormai siamo a 300 morti. Ho capito che ancora non abbiamo analizzato il DNA dei capelli trovati sulle spiagge di Gaza, ma fra tutte le questioni che sollevi con tanta ponderazione ti dispiacerebbe indicarmi una priorità? Ti dispiacerebbe dirmi qual è, secondo te, la cosa che va fatta per prima?”

302 morti.

La priorità è piuttosto facile da individuare: interrompere il massacro, evitare che il numero dei morti aumenti. E visto che quei morti sono al 98% palestinesi, la priorità è fermare Israele. Punto. Non perché si debba tifare per Hamas ma perché i morti li fa Israele. Priorità, appunto.

Facile metterla così, dirà l’accademico, ormai sommerso dai suoi approfondimenti e costretto, in emergenza, ad usarne alcuni come carta igienica.

340 morti.

Magari fosse facile metterla così. Non è facile per niente. Anche il Papa – che non ha un elettorato davanti al quale farsela sotto – si limita a dichiarazioni generiche, cose del tipo: basta alle violenze e no alle cose brutte. Nessuno fra quelli che contano qualcosa, in Europa e tanto meno negli Usa, si azzarda a chiedere che Israele sospenda l’eccidio. Tutti quanti sappiamo che si tratta di questo: un eccidio, un genocidio, uno sterminio scientifico e programmato. Al massimo, tuttavia, capeggiati dalla nostra tribù di accademici, siamo disposti a manifestare amarezza per la tragedia umana (stando ben attenti a non darle colore o identità), salvo poi tirare i remi in barca quando si tratterebbe di individuare i responsabili e mandare loro un messaggio chiaro. Perché?

350 morti.

A questa domanda, per piacere, non fate rispondere l’accademico che dentro di voi si passa la mano sotto il mento. Chiudete il saggio sulla crisi armena e sulla latitanza diplomatica della Turchia e ammettete a voi stessi una cosa. Ammettete a voi stessi quello che nessuno dice. Quello che non si può dire.

E cioè che alla fine, a noi, noi italiani europei occidentali americani atlantici come ci pare, a noi insomma, va bene così. Ammettete a voi stessi che sotto sotto, fra le pieghe di un inconscio collettivo nemmeno troppo inconscio, il nostro cuore batte forte per i missili che con tanto eroismo si schiantano su Gaza, facendo piazza pulita di morettini dall’aria poco raccomandabile, grandi o piccini che siano. Ammettete a voi stessi che Israele campeggia nel vostro immaginario, anzitutto, come avamposto occidentale nella terra del burqa, un avamposto a cui tutto è concesso perché tutto ciò che l’attornia appartiene a un modello di civiltà che non è il nostro e di cui, in fondo, non ci può fregare di meno. Ammettete a voi stessi, a voi stessi accademici, a voi stessi osservatori, a voi stessi teorici da toilette, a voi stessi geopolitologi in botta di guttalax, ammettete a voi stessi che i Palestinesi possono morire tutti, dal primo all’ultimo.

370 morti.

Ammettete a voi stessi che l’attitudine a questo patologico e compulsivo approfondimento è un modo per prendere tempo e consentire alla tragedia di consumarsi come meglio crede. Nella peggiore delle ipotesi, in fondo, sarete colti a studiare e nessuno potrà accusarvi di nulla. Ammettetelo.

E provate a pensare, per averne la riprova, a che reazione avreste se la situazione fosse a parti invertite, con Hamas che massacra gli Israeliani con bombardamenti a tappeto e incursioni di terra. Le navi di mezzo mondo sarebbero schierate davanti a quelle coste a spolverare i Palestinesi dalla faccia della Terra, e col cavolo che perdereste tutto questo tempo a documentarvi, ad approfondire e a nascondervi dietro le clamorose foglie di fico di cui in questi giorni amate addobbarvi. Saremmo tutti ebrei, altro che Kennedy che fa il berlinese.

Perché i morti non sono tutti uguali.

E i loro, i morti di quelli lì, non contano niente. Ammettetelo, su.

Per questo possiamo perdere tempo a fare gli accademici. Per questo rinunciamo a darci una priorità.

400, 450, 480 morti.

Fate un favore a voi stessi. Ammettetelo e finitela di prendervi in giro.

L’unica cosa peggiore di un crimine è l’incapacità, sottoscrivendolo, di averne il coraggio e la faccia.

500 morti.

Cazzi loro“: il riassunto dei vostri studi, fondamentalmente, è questo.

quelli che sai che figo essere come Putin?

La crisi ucraina fornisce alla stadiesca opinione pubblica italiana l’ennesima occasione per suddividersi in fazioni opposte e twittanti. C’è chi tifa per chi ha costretto Janukovyč alle dimissioni e vorrebbe che l’Ucraina fosse integrata all’Unione Europea, senza darsi la pena d’andare oltre l’elegia del ribelle per vedere cosa entri nella curiosa composizione di questo fronte politico. Ci sono, poi, i molti debunker che, scottati dalle primavere arabe, ci tengono a ricordarci che non tutte le ribellioni sono buone e giuste, che – in fondo – in Ucraina ci sono anche persone di lingua russa, che la Russia non è peggio degli Stati Uniti, che prima di spalare merda su Putin sarebbe meglio guardassimo in casa nostra, ecc. ecc.

Inviterei tutti a rendersi conto che in questa partita, dentro e fuori l’Ucraina, il più buono ha la rogna e che, dunque, l’unica prospettiva che ci si schiude – fatti salvi i cosiddetti corridoi umanitari che, in un senso o nell’altro, fosse necessario attivare – è quella di considerare, in maniera estremamente machiavellica, quale scenario è maggiormente conveniente per l’Europa. Ridurre gli stati cuscinetto attorno a Mosca, ridimensionando l’influenza del Cremlino nell’area? Inasprire i rapporti con un importante fornitore di gas e, in ultima analisi, con un soggetto diplomaticamente, militarmente ed economicamente pericoloso? Altro? Non lo so, non sono un esperto. Pensiamoci, lo dico sul serio.

Ma pensiamoci, per favore, in modo laico. Senza inseguire un qualche “bene” che, in questa vicenda, mi sembra non risiedere da nessuna parte. Non facciamo i verginelli e vediamo di uscirne, per una volta, con qualcosa in mano.

Perché fare un sottaciuto e inconfessato tifo per Putin solo perché rappresenta l’antiamericano che ogni casapoundista o nostalgico di Craxi (essi vivono!) o comunista antiatlantico o grillino antieuropeista di casa nostra non è mai riuscito a essere, bè, rivela un quadro clinico piuttosto inquietante. Roba da chiudersi in analisi. Con uno bravo, però.Immagine

morire di cultura (o del purismo di certi direttori artistici)

Nel mondo della cultura e, in particolare, delle arti (teatro, musica, cinema, ecc.) esistono due fondamentali tipologie di operatori, che differiscono profondamente tra loro.

Ci sono, da un lato, quelli destinati ad avere successo, a svilupparsi e fare business, perché coniugano la qualità della loro proposta (che è una condizione necessaria ma non sufficiente) alla capacità – assolutamente manageriale – di trasformarsi in un valore aggiunto per chi decide di sponsorizzarli.

Ci sono, poi, quelli che non hanno ancora capito che le sponsorizzazioni sono, essenzialmente, investimenti e che, nella misura in cui vengono ridotte a semplici voci di costo (senza ritorni di alcun tipo per gli sponsor), sono destinate ad essere tagliate da chi le eroga, lasciando tutti a secco.

Se lo Stato non è più in grado di sostenere manifestazioni e rassegne varie e se il pubblico pagante non è sempre sufficiente a reggere la baracca, il rapporto con gli sponsor deve cambiare radicalmente. Deve cambiare, in particolare, lo sponsee (soggetto sponsorizzato), cui tocca una progettualità nuova e specifica, parallela (ma non meno essenziale) alla propria arte di riferimento. Elaborare idee, opportunità e soluzioni per rendersi appetibile agli occhi degli sponsor è un momento strategico nella vita di un operatore culturale, troppo spesso vittima di pruriti intellettuali che ne fanno un interlocutore inviso e sconveniente.

Non è più possibile, detto altrimenti, trincerarsi nel purismo di certi direttori artistici, convinti che all’arte sia tutto dovuto e, in ragione di questo convincimento, incapaci di pensarla in funzione di qualche altra forma di comunicazione che se ne serva per fare marketing, branding, customer care, corporate reputation e quant’altro interessa agli sponsor.

Questa pletora di prudentissimi custodi dell’eccellenza è ormai dimentica della cosa più importante che dovrebbe custodire: la possibilità, cioè, che quell’eccellenza – nei fatti – sopravviva.

Può così capitare che un possibile sponsor, ricevendo il direttore artistico di turno che viene a presentargli la rassegna da sponsorizzare, si senta dire da quest’ultimo: “A noi fa piacere aprire con voi una relazione ma sia chiaro che”.

“Ma sia chiaro che”. Ecco le mani avanti. Mani avanti contro il demone dell’interesse aziendale, mani del corpo esanime di una cultura che preferisce svanire illibata piuttosto che vivere, produrre altra ricchezza e rilanciarsi. Di questa cultura, in effetti, non solo si mangia pochino ma – spesso – si finisce per morire.

Di una morte, sia detto senza mezzi termini, sacrosanta e benvenuta.

Il Palazzo e la gente. Fenomenologia di Matteo Renzi.

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Con Matteo Renzi il PD vince. Di questo sono piuttosto sicuro. Si tratta, in fondo, di una novità, visto che dal ’94 a oggi non ho mai avuto l’impressione che il centrosinistra potesse farcela. Anche quando le coalizioni guidate da Romano Prodi riuscirono a vincere, in effetti, le mie impressioni della vigilia erano di segno opposto.

Con Matteo Renzi il PD vince. Non perché il Berlusconismo si sia esaurito e occorra, a fronte del vuoto creatosi a Destra, rimpiazzarlo con un altro paradigma politico-culturale dominante. Il Berlusconismo non si è esaurito (semmai, e anche qui sarei molto prudente, si è esaurito Berlusconi) e Renzi ne rappresenta semplicemente l’interprete più avvertito, aggiornato e capace di parlare a quello che può essere definito “popolo della crisi”.

Benché non tutti patiscano la crisi in eguale misura, occorre riconoscere che questa crisi è forse la più estesa, storicamente, per categorie e ceti sociali coinvolti, al punto che – banche a parte – è difficile individuare, oggi, un soggetto che sia sostanzialmente immune ad essa. Il popolo della crisi è dunque il popolo italiano tout court, trasversale – per definizione – agli elettorati di destra e sinistra e, addirittura, poco incline a considerare la politica (di questa o quella parte) come lo strumento per uscire dalla crisi stessa.

Renzi, certamente, dichiara che il bacino di consenso raccolto attorno alla sua persona esprime un coraggioso rilancio della fiducia nella (buona) politica, ma non c’è istituto della politica fin qui conosciuta che – almeno a parole – non abbia conosciuto gli strali del sindaco di Firenze, e in questo senso non è un caso che Renzi stesso abbia dichiarato, in un’occasione sfuggita ai più, di essere “più Grillo di Grillo”. La politica contro cui Renzi, in modi più eleganti ma sostanzialmente analoghi a quelli del comico genovese, si scaglia è esattamente la politica che “fa differenza”, la politica cioè che pretende di rappresentare la crisi e le strategie per uscirne da destra o da sinistra. A Matteo Renzi, che mutua il sentimento del popolo della Crisi, non interessa e anzi ritiene superata la politica che fa questa differenza, ed è semmai più attento a una politica di segno diverso, post-ideologica, che “fa differenza” fra il Palazzo – immagine archetipica di tutto quello che è vecchio, stantio, sordo, distante, autoreferenziale, rottamabile e pensionabile – e la gente – sorta di istituzione nuova, magmatica e diffusa nella quale Renzi vuole insediarsi per esercitarvi quel potere che il Palazzo potrà poi, semplicemente, ratificare.

Ecco l’aggiornamento del Berlusconismo, che non sostituisce più – secondo uno schema abusato e venuto a noia – la sede pubblica del Primo Ministro (Palazzo Chigi) con l’abitazione privata dello stesso (Villa Certosa), e che invece assume Palazzo Chigi come il luogo in cui portare al governo “la politica della gente”. Una sorta di “palazzo en plein air”, che non ha più un tetto o, se vogliamo, un limite perché quel limite è, attraverso Renzi, la gente stessa, il popolo della crisi, il popolo italiano. In continuità con Berlusconi, rimane cioè il culto della persona e del rapporto profondo, prepolitico, somatico, emotivo con il suo fronte di consenso, non più però declinato secondo il modello della “star”, amata perché percepita come inarrivabile, bensì declinato secondo il modello del “compagno di viaggio”, amato perché percepito come proprio “calco”, deluso come siamo delusi noi, stufo come siamo stufi noi.

Ecco perché Renzi ha ripetuto, subito dopo la vittoria alle primarie, che non vuole diventare “l’uomo dei Palazzi” ed ecco perché dice spesso che gli Italiani sono meglio della classe politica di questo Paese: Renzi non vuole, alla maniera della classe politica di cui parla, rappresentare gli Italiani; Renzi vuole esserne il calco, insignito del potere in ragione di questa sua qualità mimetica. Quando Renzi dice, dunque, che gli Italiani sono meglio della classe politica di questo Paese, non sta facendo il modesto: in questo quadro, lui fa parte degli Italiani, non della classe politica.

Proprio per questo, Renzi teme anzitutto i suoi, cioè i “Renziani”, coloro che – sostenendolo all’interno del PD contro altri candidati e contro altre correnti – ne manifestano la natura politica più “classica” e in qualche modo ne oscurano o ne schermano il rapporto diretto con la gente, che è quello per cui lui viene votato. Renzi è sincero quando dice che nel suo PD non c’è posto per le correnti. Ed è ancora più sincero quando dice che la prima corrente a doversi sciogliere è proprio quella dei Renziani. Nei prossimi mesi, credo, assisteremo a una “notte dei lunghi coltelli di plastica”, durante la quale molti Renziani si renderanno conto che Renzi li considera non già coautori del suo messaggio politico, persone cioè assieme alle quali progettare e porre in essere l’illusione post-ideologica della “politica della gente”, bensì destinatari del suo messaggio politico, persone cioè alle quali dare a bere – al pari di chi l’ha votato – la realtà post-ideologica della “politica della gente”. Una sorta di epurazione morbida e assolutamente endogena, capace come tale di accreditarlo ulteriormente presso l’elettorato di sinistra, di centro e di destra a cui si è rivolto e a cui si rivolgerà.

Con Matteo Renzi il PD vince. Che cosa diventi il PD con Renzi, bè, questa è un’altra storia.

“Portiere di merda”? Perché no?

La Juventus è stata multata di 5.000 euro per gli insulti che i bambini presenti allo stadio hanno indirizzato al portiere dell’Udinese.

Magari sarebbe il caso di tranquillizzarsi un attimo.
Di respirare.
Di rendersi conto, senza tanti strepiti, che si può essere persone educate e civili e poi, senza alcuna contraddizione, andare allo stadio e dare della “merda” all’avversario, all’arbitro, al presidente della tua squadra, al guardalinee, alla moglie del portiere, alla sorella del raccattapalle e alla nonna di Zidane. A qualunque età.

La faccenda per me è chiarissima: non essendo più in grado di essere civili come “società” intesa nel suo complesso, non avendo più tempo da dedicare ai figli, non essendo più in grado di spiegare loro dove finisce lo stadio (e/o il carnevale) e dove comincia tutto il resto, finiamo per essere sommersi da un senso di colpa abominevole, e ci fa molto piacere poter coprire questo senso di colpa pescando dalla vasta gamma di foglie di fico di cui disponiamo, come se quello che i ragazzi non hanno imparato fuori dallo stadio potessero (o, peggio, dovessero) impararlo dentro o come se, in ragione dello stesso principio, fosse colpa di un videogame se fra i più piccoli vola un cazzotto di troppo.

Fate fare alle famiglie quello che devono fare le famiglie. Allo stadio si va per dimenticare un po’ delle buone maniere apprese a casa. Un po’, certo. Non tutte. Entro certi limiti, penso che sia perfino salutare e, a suo modo, formativo. Ma fino a quei “certi limiti” bisogna pur spingersi, altrimenti non li si comprenderà mai per quello che sono: cazzate un po’ infantili, che fanno paura solo se te le fai raccontare da Don Mazzi. Perché nella realtà, invece, il portiere che insulti manco ti caga, o se ti caga pensa ai soldi che prende e ride di te, o al massimo si gira e ti manda a quel paese e tu gli rispondi e finisce lì. E fa tutto piuttosto ridere, in fondo. Finché, ovviamente, non lo trasformi nel banco di prova della civiltà, per non dover ammettere – a ben vedere – d’aver fallito in tutti quegli ambiti in cui la serietà, il rispetto e l’educazione s’imporrebbero davvero.

liberale radicale e strutturalista

Non intendo rispettare il parere di tutti.

Non si è veramente liberali senza essere disposti a riconoscere fino in fondo la sintassi liberale e la sua morfologia.

Essere radicalmente liberali non significa stabilire che la priorità spetta all’individuo. Significa assumere che la priorità spetti a tutto quello che, a prescindere dalla sua natura personale o collettiva, riesce a costituirsi come “individuo”.

Fatto questo, ci si deve chiedere se il rispetto della libertà è garantito per tutti gli individui così colti o solo per alcuni. Si noterà allora che lo Stato, sotto certe condizioni capace di costituirsi come “individuo”, rappresenta un soggetto deputato a garantire la libertà di tutti gli individui senza che nessuno garantisca, a monte, della sua.

Essere radicalmente liberali significa ridare anche allo Stato, così come a tutti gli altri individui, la libertà che gli spetta per diritto conseguito sul campo, visto che, ripeto, è individuo solo quello che riesce a costituirsi come tale, secondo una logica che impone a tutti, anche alle singole persone, di non dare per scontato il proprio “essere un individuo” e anzi di lavorare perché quella condizione possa essere raggiunta.

Esiste un personale non individuale dal quale dobbiamo progredire verso l’individuale, personale o collettivo che sia. Riconosciuto come individuo, lo Stato deve poter partecipare a tutto quello cui partecipano gli altri individui e deve perciò essere libero di diventare un attore economico decisivo e, nella misura in cui lo ritenga opportuno e ne sia al pari degli altri legittimato, proprietario del sistema economico.

Essere radicalmente liberali non significa mettere i privati al sicuro dallo Stato. Significa interrogare il Privato dello Stato per farlo uscire allo scoperto consentendogli di costituirsi in rapporto al Privato degli altri individui, che al tempo stesso include e con il quale deve però interloquire, in quello che rappresenta a tutti gli effetti il monologo interiore della civiltà democratica.

La questione è strutturale: non si dà “individuo di natura” ma solo “posizione individuale”. L’individuo è cioè la nozione neutra e la casella vuota di una matrice strutturale e il punto, semmai, è capire chi e come possa “fungere da individuo”, rimuovendo gli ostacoli che impediscono a persone, gruppi, società, ceti, categorie, professionalità, movimenti, ordini, istituzioni, comunità, nazioni e Stati di attestarsi come individui.

Radicalmente liberale è consentire al tuo pensiero di essere reversibile. Altrimenti stai solo raccontando la fiaba dell’eroe.

Se invece pensi di far sparire lo Stato, non sei liberale. Sei solo un selvaggio.

Fallire politicamente. Osservazioni dall’universo parallelo in cui Obamacare naufragasse in Italia.

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Povero Obama. Se fosse stato il presidente del consiglio italiano, nulla gli avrebbe imposto di assumersi pubblicamente la responsabilità del fallimento del progetto Obamacare.

L’Italia è, alla lettera, una “società a responsabilità limitata”. Mi riferisco non già alla fattispecie relativa al soggetto giuridico previsto dal Diritto Privato bensì a un significato più ampio e antropologico che – volendo – possiamo assegnare all’espressione “società a responsabilità limitata”.
Posta una qualche manchevolezza o inefficienza da parte dell’individuo, la filogenesi del Sistema Italia si organizza in modo tale da minimizzare la misura in cui la responsabilità di quella defezione dovrà ricadere sull’individuo in questione e, al limite, in modo tale da minimizzare la possibilità che insorga, in quanto tale, un problema di responsabilità.

I risultati elettorali ci permettono di giustificare “le larghe intese” alla luce di una contingenza ineludibile, ma non riescono a nascondere il fatto che nei confronti di quelle “larghe intese” siamo evolutivamente debitori perché esse ci forniscono non solo e non tanto un governo quanto piuttosto un quadro potenzialmente esplicativo di tutto quello che in termini politici non riusciamo a combinare, senza che da questo ci derivino colpe di sorta.

Erroneamente, si tende a ritenere che questo meccanismo assolutorio derivi da una cultura statalista, ma credo che questo sia vero solo in seconda istanza, nella misura cioè in cui lo statalismo – in Italia – ha finito per declinare nella prassi civile l’adagio cattolico del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Lo Stato, dunque, come comunità di irresponsabili che si rimettono all’immancabile misericordia di Dio e delle sue molteplici agenzie di intermediazione (la burocrazia, ad esempio).

Obama, se avesse affrontato nel nostro Paese il fallimento del proprio progetto di riforma della Sanità, non avrebbe mai dovuto fare le pubbliche dichiarazioni che ha fatto negli States, ascrivendosi tutta la responsabilità dell’accaduto. Più garbatamente dei suoi connazionali, avremmo fatto in modo di fargli trovare, a portata di mano, un intero universo di attenuanti fra loro coordinate e capaci, in definitiva, di tratteggiare l’immagine di un mondo impreparato alla riforma della Sanità NONOSTANTE l’encomiabile impegno profuso da Obama.

Anche noi – dunque – concepiamo l’errore dei politici, ma ne facciamo subito una questione collettiva, perché un domani potremmo essere NOI al loro posto e potremmo trovarci NOI nella necessità di accreditare una Storia che ci esenti e ci affranchi.

– Troppo facile – diremmo allora – prendersela con Obama.

Perché, alla maniera di Andreotti nel Divo di Sorrentino, abbiamo l’innata capacità – fondamentale per chiunque lavori in un gigantesco “ufficio reclami” come l’Italia – di far credere a quel nostro interlocutore che fosse disgraziatamente alla ricerca di colpevoli che, quasi per definizione, “la situazione è un po’ più complessa”.