“Dave, non fare figli” – recensione di David Lynch: The Art Life

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Ho dovuto bere molte birrette per farmi passare i 90 minuti d’anticipo necessari a trovare un posto, ma “David Lynch: The Art Life”, ieri sera, mi è proprio piaciuto.

Diffido sempre di libri e pellicole che riassorbono gli artisti nella loro biografia, come se l’immane sforzo da essi fatto per separarsene, o almeno per separarne e riconfigurarne le molecole, meritasse d’essere oltraggiato dalla nostra bacata indole aneddotica, che ogni volta va in cerca di facili eziologie, in un rimestare trito e bituminoso preso a smuovere – sempre – le stesse quattro cose: infanzie difficili, droghe, amori e malattie, lì dove il gomito d’intesa con chi ti è a fianco può schiudersi con la dignità di un prolasso rettale in qualcosa del tipo “Ah, lo vedi? Ecco perché Cuore Selvaggio!”.

Con David Lynch il rischio era ancora più alto, perché alle tante schiere di apologeti – forgiatisi per anni in vane e pugnaci ricostruzioni del “sensodi” –  non restava che la fonte biografica, un po’ come ai bimbi madidi e queruli non resta che la fontanella dei giardini pubblici. Facce capì, insomma.

Per fortuna, invece, niente biografia. O meglio: biografia ne troverete a profusione, ma organizzata (e disorganizzata) in modo tale da non prestarsi ai piccoli puzzle delle tante ermeneutiche da passeggio, cui di solito mancano giusto un paio di pezzi per filare a meraviglia. Prima di tutto, infanzia strepitosa: i giochi, i prati, i giardini e le villette dell’Idaho, i genitori amorevoli che non litigavano mai, la madre che favorisce la sua passione per il disegno, gli amici con cui rotolarsi felice nel fango. Tiè.

Ma a mancare, in fondo, è proprio il cinema, che il documentario – pure – è per intero, e fino in fondo. Si arriva, cronologicamente, alle sole porte di Eraserhead, che Lynch saluta come la sua esperienza cinematografica più… (ecco non ricordo, forse con la sua vocina stridula dice “più divertente”, o “più libera”, o vai a sapere. “Più”, comunque). E dopo Eraserhead basta, fine del documentario. Più di un castrato singulto, probabilmente, fra gli apologeti di cui sopra, che nel portafoglio – assieme alla lista della spesa – portano da anni l’elenco delle questioni irrisolte da Twin Peaks in poi.

Il cifrario segreto, insomma, rimane segreto, soprattutto perché non sembra affatto un cifrario. Nelle sigarette e nelle parole di Lynch, “Dave” per il padre che vedendone le creazioni gli consiglia di non avere figli e per gli amici che in auto gli fanno notare d’essersi fermato al centro della superstrada, il suo rapporto con l’arte non contempla mai la categoria della rappresentazione e della ri-presentazione.  Una radicale polpastrellicità, che viene fuori dal suo modo di disegnare e abitare la pittura, ci porta in una dimensione molto bambina (e condivisa, non a caso, proprio con una bimba), in cui il “cosa mai vorrà dire” si volge subito in un “cosa vorrà fare” e, al limite, in un più sordo “cosa potrà fare”, sul dorso del quale i corpi proliferano in maniera del tutto ludica, senza traccia di incubo. Il legno, i weekend passati con il padre a sistemare e inventare cose, le tele, i colori, il casino, i mostriciattoli, gli animaletti sezionati, i garage pieni di cianfrusaglie, le piccole collezioni, i buchi e i fili e le muffe e le cose che si piegano. Si tratta sempre di “arrivare a qualcosa” ma in un senso estremamente letterale, che coinvolge l’arte nella sua più intima motilità, o forse la motilità stessa come arte. Le materie gli stanno davanti come mondi di cui saggiare polpa e grana, e in tutto questo le forme espressive vi intervengono non potendo che intervenire, certo, sempre pregne – tuttavia – della loro subalternità all’unica cosa che conta davvero: vedere che succede se. Siamo lontani anni luce dal professionismo di chi segua un corso di fotografia perché vuole arrivare a fare una mostra fotografica, o di chi imbracci una videocamera perché vuole fare un film. Lynch racconta con entusiasmo di quando Los Angeles gli apre le porte per lavorare ai suoi progetti, consentendogli di abbandonare Philly (“la New York dei poveri”, come la chiama lui) e di chiudersi in una stalla (una stalla, sì) per quattro anni a pastrocchiare il suo cinema. Ma anche in quel caso, tuttavia, il cinema sembra soprattutto “destinato a capitare”, epifenomeno di un lavoro sul mondo da cui, a un certo punto, deriva come materiale di risulta. Accade insomma che la pittura abbia bisogno di muoversi, e il cinema passa di lì, occasionalmente utile alla causa.

Il documentario, che spesso fa anche ridere, restituisce una figura tutto sommato umile, di poche parole e molto tabacco, presa in conversazioni  per le quali linguaggio e interlocutori sono ancora in fase d’allestimento. Non se ne esce con tante chiavi di lettura, ma con Dave, che sta lì con sua figlia, seduto al tavolino, a pastrocchiare qualcos’altro.