HAMAS E ISRAELE. DUE PAROLE.

israel-palestine

Hamas non è un’organizzazione paramilitare di stampo religioso.

Hamas è anche questo, certo. Ma non lo è anzitutto. E non lo è, certamente, per noi.

Per noi Hamas è soprattutto una parola, una di quelle parole dal suono magico, dal potere evocativo, il nome del cattivo, l’eco della Shari’a, il verso dell’orco. La sua sola emissione presentifica una bolla indivisa cui ascrivere tutto il male possibile, perché tutto il male possibile inferto ai palestinesi ne risulti – di riflesso – giustificato, corrisposto in qualche modo dall’abiezione della vittima, inaderente a qualunque responsabilità, giacché mai si è responsabili delle sventure che occorrono all’orco. Perché dal nostro punto di vista non si tratta di sventure e di un orco, a ben vedere, tutto interesserà fuorché il suo punto di vista.

Un’organizzazione paramilitare può avere un punto di vista. Un orco no.

Israele, d’altro canto, non è uno Stato sovrano.

Israele è anche questo, certo. Ma non lo è anzitutto. E non lo è, certamente, per noi.

Per noi Israele è soprattutto una parola, una di quelle parole dal suono magico, dal potere evocativo, il nome del buono, l’eco della Shoah, la voce dell’eroe. La sua sola emissione presentifica una bolla indivisa cui ascrivere tutto il bene possibile, perché tutto il male che ne deriva ne risulti – di riflesso – contagiato, volto al bene dalla santità del carnefice, adeso alla nostra empatia, giacché sempre si vibra di quello stesso sacrosanto gesto vibrato dal braccio dell’eroe. Perché dal nostro punto di vista si tratta proprio di un gesto sacrosanto e di un eroe, a ben vedere, tutto interesserà fuorché la violenza e il sangue che quel gesto, a fin di bene, comporta.

Uno Stato Sovrano può avere delle colpe. Un eroe no.

Ecco perché non vogliamo chiederci cosa mai penseremmo di quanto accade ai palestinesi se accadesse, che so, ai portoghesi, ai greci o agli olandesi. Se accadesse, che so, agli israeliani.

Perché l’orco è sempre lo stesso. Perché l’eroe è sempre lo stesso. Perché qualunque altro scenario è rubricato alla voce carnevale, e non è più serio né degno d’attenzione.

Perché nel mondo delle fiabe certe cose sono scritte e dette una volta per tutte e come sanno tutti i bambini si rileggono ogni sera nello stesso modo.

Il nostro immaginario impresso nella loro carne, sottratto a qualunque traduzione.

“I palestinesi? Possono morire tutti” (gli accademici, l’inconscio collettivo e l’avamposto occidentale)

gaza

10 morti.

Non posso parlare del conflitto Israelo-palestinese. Non ne so abbastanza.

40 morti.

Posso parlare, però, dell’opinione pubblica italiana, nella quale sono immerso da lungo tempo.

64 morti.

Non parlerò, però, delle fazioni tifose, che puntualmente saltano fuori in mancanza di altre competizioni che consentano loro di schierarsi da qualche parte. Non credo sia necessario spendere parole per chi difende Israele in nome del suo status di democrazia persa nel mondo brutto e cattivo dell’Islam o per chi indossa una kefiah e solidarizza con un fronte armato a vocazione religiosa di cui in realtà non condivide (e non sa) quasi nulla. Considero queste posizioni ugualmente cretine e dei cretini non parlo.

115 morti.

Parlo più volentieri di una terza categoria. Gli osservatori. I politologi da toilette, quelli che seduti sulla tazza sfogliano l’Espresso, Limes, il Corano (comprato il giorno prima perché avere in casa solo la Bibbia, in questa fase, li faceva sentire sporchi dentro) e dopo aver azionato lo sciacquone escono dal bagno nella sardonica e amara consapevolezza d’essersi affrancati dalla litigiosa superficialità del mondo.

120 morti.

Li chiameremo “accademici”. Gli accademici non parteggiano. Scuotono la testa perché sanno che la loro preziosa visione delle cose, basata su un approfondito esame della posta in gioco, è minoritaria per definizione. Cosa sanno realmente del Medio-Oriente? Praticamente nulla, in realtà. Ma si stanno documentando e, scambiando i mezzi con il fine, eleggono il documentarsi a obiettivo primario della civiltà.

140 morti.

È un vero peccato che Palestinesi e Israeliani, dopo tutto, non si fermino un momento per andare al bagno e documentarsi un po’ su loro stessi.

150 morti.

Ovviamente gli accademici parlano malvolentieri dei morti, perché fare retorica sul dolore non sarebbe degno.

160 morti.

E allora parte il pippone solonico su quanto sia facile tifare per questo o per quello e su quanto invece sia più difficile, ma doveroso, comprendere le ragioni profonde che stanno dietro a quel conflitto. A questo punto il fiume si sta già ingrossando ma la piena arriva in fretta: la geopolitica, gli USA, i califfati, le primavere arabe, il Mossad, la Russia, la crisi Siriana, lo scenario iraniano in veloce mutamento, e la Giordania? Oh ma la Giordania?, la Bibbia, il Corano, Hamas, il Likud, l’Olocausto, la guerra dei sei giorni, il Sionismo, la diaspora, la fuga dall’Egitto, Mosè, il ruolo perduto dell’Italia nell’area mediterranea, ti ricordi Craxi e la crisi di Sigonella?, D’Alema che dopo tutto, Andreotti che con Arafat si andava via che era una meraviglia, e spiace – alla fine – non trovare un’ultima rubrica che metta in evidenza come il regime alimentare osservato dalle due fazioni non aiuti a fornire al cervello le giuste vitamine per attivare l’enzima della pace.

230 morti.

Facile dire no alla guerra.

Facile condannare Israele.

Facile gettare fango su Hamas.

Per carità.

L’accademico – se solo gli prospettate una di queste cose – se ne ritrae schifato che manco un gelato alla merda e torna subito a leggere qualcosa sugli sport praticati nel tempo libero dagli arabi israeliani, un aspetto della vicenda che in questo clima da stadio rischiava di passare sotto silenzio e che invece è ovviamente fondamentale per capire di cosa stiamo parlando. E giù letture. Alla fine bisogna ricorrere al Guttalax per avere di che chiudersi in bagno senza destare sospetti. L’unica voce di spesa che supera quella delle riviste specializzate, in questa fase, è quella per la carta igienica.

250 morti.

Ora, volete mettere in crisi un accademico? Chiedetegli una priorità. Andate lì e gli dite: “Tesoro, senti, puoi uscire un attimo dal bagno? Allora, qua ormai siamo a 300 morti. Ho capito che ancora non abbiamo analizzato il DNA dei capelli trovati sulle spiagge di Gaza, ma fra tutte le questioni che sollevi con tanta ponderazione ti dispiacerebbe indicarmi una priorità? Ti dispiacerebbe dirmi qual è, secondo te, la cosa che va fatta per prima?”

302 morti.

La priorità è piuttosto facile da individuare: interrompere il massacro, evitare che il numero dei morti aumenti. E visto che quei morti sono al 98% palestinesi, la priorità è fermare Israele. Punto. Non perché si debba tifare per Hamas ma perché i morti li fa Israele. Priorità, appunto.

Facile metterla così, dirà l’accademico, ormai sommerso dai suoi approfondimenti e costretto, in emergenza, ad usarne alcuni come carta igienica.

340 morti.

Magari fosse facile metterla così. Non è facile per niente. Anche il Papa – che non ha un elettorato davanti al quale farsela sotto – si limita a dichiarazioni generiche, cose del tipo: basta alle violenze e no alle cose brutte. Nessuno fra quelli che contano qualcosa, in Europa e tanto meno negli Usa, si azzarda a chiedere che Israele sospenda l’eccidio. Tutti quanti sappiamo che si tratta di questo: un eccidio, un genocidio, uno sterminio scientifico e programmato. Al massimo, tuttavia, capeggiati dalla nostra tribù di accademici, siamo disposti a manifestare amarezza per la tragedia umana (stando ben attenti a non darle colore o identità), salvo poi tirare i remi in barca quando si tratterebbe di individuare i responsabili e mandare loro un messaggio chiaro. Perché?

350 morti.

A questa domanda, per piacere, non fate rispondere l’accademico che dentro di voi si passa la mano sotto il mento. Chiudete il saggio sulla crisi armena e sulla latitanza diplomatica della Turchia e ammettete a voi stessi una cosa. Ammettete a voi stessi quello che nessuno dice. Quello che non si può dire.

E cioè che alla fine, a noi, noi italiani europei occidentali americani atlantici come ci pare, a noi insomma, va bene così. Ammettete a voi stessi che sotto sotto, fra le pieghe di un inconscio collettivo nemmeno troppo inconscio, il nostro cuore batte forte per i missili che con tanto eroismo si schiantano su Gaza, facendo piazza pulita di morettini dall’aria poco raccomandabile, grandi o piccini che siano. Ammettete a voi stessi che Israele campeggia nel vostro immaginario, anzitutto, come avamposto occidentale nella terra del burqa, un avamposto a cui tutto è concesso perché tutto ciò che l’attornia appartiene a un modello di civiltà che non è il nostro e di cui, in fondo, non ci può fregare di meno. Ammettete a voi stessi, a voi stessi accademici, a voi stessi osservatori, a voi stessi teorici da toilette, a voi stessi geopolitologi in botta di guttalax, ammettete a voi stessi che i Palestinesi possono morire tutti, dal primo all’ultimo.

370 morti.

Ammettete a voi stessi che l’attitudine a questo patologico e compulsivo approfondimento è un modo per prendere tempo e consentire alla tragedia di consumarsi come meglio crede. Nella peggiore delle ipotesi, in fondo, sarete colti a studiare e nessuno potrà accusarvi di nulla. Ammettetelo.

E provate a pensare, per averne la riprova, a che reazione avreste se la situazione fosse a parti invertite, con Hamas che massacra gli Israeliani con bombardamenti a tappeto e incursioni di terra. Le navi di mezzo mondo sarebbero schierate davanti a quelle coste a spolverare i Palestinesi dalla faccia della Terra, e col cavolo che perdereste tutto questo tempo a documentarvi, ad approfondire e a nascondervi dietro le clamorose foglie di fico di cui in questi giorni amate addobbarvi. Saremmo tutti ebrei, altro che Kennedy che fa il berlinese.

Perché i morti non sono tutti uguali.

E i loro, i morti di quelli lì, non contano niente. Ammettetelo, su.

Per questo possiamo perdere tempo a fare gli accademici. Per questo rinunciamo a darci una priorità.

400, 450, 480 morti.

Fate un favore a voi stessi. Ammettetelo e finitela di prendervi in giro.

L’unica cosa peggiore di un crimine è l’incapacità, sottoscrivendolo, di averne il coraggio e la faccia.

500 morti.

Cazzi loro“: il riassunto dei vostri studi, fondamentalmente, è questo.

I morti della crisi nel fiume che scorre davanti a Grillo

DIstrazione

Uno degli aspetti più criminosi della proposta politica di Beppe Grillo, alimentatasi non soltanto del discredito nei confronti della politica ma anche delle concomitanti macerie della crisi, risiede nella strumentalizzazione del dissesto sociale e psicologico che percorre il Paese ormai da anni.

Il Movimento Cinque Stelle non è – ovviamente – responsabile della situazione in cui si trova l’Italia, ma l’ha certamente usata in maniera spregiudicata per catalizzare consenso e, dopo il voto, sta facendo di tutto affinché questa stessa situazione non si sblocchi, pena – in fondo – il venir meno delle ragioni stesse che hanno determinato il suo successo elettorale.

Nel giorno stesso in cui l’ennesima proposta di governo avanzata dal Partito Democratico viene rispedita al mittente, i morti di Perugia acquistano una coloritura particolare. Andrea Zampi, titolare di una scuola di formazione che operava nell’ambito della moda, entra negli uffici della Regione Umbria, a Perugia, e uccide Margherita Peccati e Daniela Crispolti. Dopodiché si suicida. Il mancato finanziamento del suo progetto, che si trascinava ormai dal 2009, pare avergli causato una forte crisi depressiva e, di qui, averlo indotto al gesto. Diamo ai fatti la loro giusta collocazione: Zampi non era esasperato dalla mancata formazione di un esecutivo stabile e la sua tragica vicenda si aggiunge, “semplicemente”, a una serie lunga e preoccupante di casi analoghi, che negli ultimi anni sono andati intensificandosi, facendo collassare una sull’altra cronaca nera e cronaca sociale. Niente di tutto ciò – sia detto a chiare lettere – può essere ascritto a una responsabilità oggettiva di Beppe Grillo e del M5S. Ci mancherebbe. Sono altri i politici chiamati a risponderne, a partire – per esempio – da quelli che hanno deliberatamente scelto di non adoperarsi affinché le logiche del Patto di Stabilità non finissero per congelare il portafoglio della Pubblica Amministrazione, devastando di crediti (anziché di debiti) piccole e medie imprese, ad ogni latitudine.

Di sicuro, adesso, c’è però questo: un Paese non governabile e non governato è un Paese che non può dare alcuna risposta alla crisi che conduce queste persone alla disperazione. Non so se la piattaforma proposta al M5S dal Partito Democratico prefiguri il migliore dei mondi possibili. Probabilmente no. Probabilmente, anzi sicuramente, si può fare di meglio e ci sono pochi dubbi circa il fatto che sarebbe meglio che i protagonisti di questa fase politica fossero altri. Detto questo, appurate insomma queste tristi verità, come se ne esce? Il parlamento, per balcanizzato che sia, è ormai disegnato e la responsabilità, al suo interno, si divide fra tutti i presenti. Non ci può essere qualcuno che – in ragione di un passato meno compromesso – si senta affrancato dall’onere di una partecipazione attiva.

Le mani lorde di sangue, che gettano i cadaveri della crisi nel fiume della Storia, non sono mani a 5 stelle. Ma sono quasi tutti grillini quelli seduti, più a valle, lungo le sponde del fiume. La loro colpa più grave, in questi frangenti, è l’attesa, il calcolo, la sterile rivendicazione di una persistente verginità politica. I corpi morti che nel frattempo transitano loro davanti, infatti, non sono quelli dei loro nemici. Sono quelli dei “cittadini”, di lavoratori e imprenditori che hanno rinunciato a credere che un miglioramento sia possibile, sono quelli di chi – forse – ha persino votato per loro.

In tutto questo, però, il Partito Democratico si sta esibendo in una pessima performance. Non parlo delle sue responsabilità storiche (dal 2001 ad oggi, a conti fatti, ha governato solo per un biennio e con una risicatissima maggioranza al Senato) e non parlo nemmeno della sua attuale strategia, piuttosto obbligata – in fondo – dato l’esito delle elezioni. Mi riferisco soprattutto alla sua oppiacea distanza dal Paese Reale che, a dispetto dello schiaffo del voto, perdura ancora oggi. A tradirla e a darle voce ci ha pensato ieri sera Pippo Civati, il volto nuovo che assieme a Renzi dovrebbe rappresentare la carta da giocarsi nel futuro più prossimo. In collegamento con Daria Bignardi, Civati ha tentato – a onor del vero – di raccontare l’esasperazione di questo Paese e, con ciò, di mostrarsene consapevole. L’ha fatto, tuttavia, nel peggiore dei modi possibili, mettendo assieme – a titolo di esempi – i fatti di Perugia e il suicidio di David Rossi, responsabile comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena, la cui notizia è giunta nel corso della trasmissione. Posso capire la difficoltà dovuta alla necessità di elaborare un commento a caldo, ma un esponente di spicco della principale forza politica del campo progressista non può permettersi uno scivolone del genere. Il piccolo imprenditore che crolla dopo quattro anni nei quali lo Stato gli ha voltato le spalle non può rientrare nella stessa categoria sociale di un dirigente suicidatosi nel pieno di una vicenda giudiziaria che coinvolge, assieme alla sua Banca, un pezzo importante del potere politico di questo Paese. Un’analisi che confonda a tal punto le cose rivela una miopia agghiacciante e fornisce ulteriori e fondati argomenti ai detrattori del PD.