quelli che sai che figo essere come Putin?

La crisi ucraina fornisce alla stadiesca opinione pubblica italiana l’ennesima occasione per suddividersi in fazioni opposte e twittanti. C’è chi tifa per chi ha costretto Janukovyč alle dimissioni e vorrebbe che l’Ucraina fosse integrata all’Unione Europea, senza darsi la pena d’andare oltre l’elegia del ribelle per vedere cosa entri nella curiosa composizione di questo fronte politico. Ci sono, poi, i molti debunker che, scottati dalle primavere arabe, ci tengono a ricordarci che non tutte le ribellioni sono buone e giuste, che – in fondo – in Ucraina ci sono anche persone di lingua russa, che la Russia non è peggio degli Stati Uniti, che prima di spalare merda su Putin sarebbe meglio guardassimo in casa nostra, ecc. ecc.

Inviterei tutti a rendersi conto che in questa partita, dentro e fuori l’Ucraina, il più buono ha la rogna e che, dunque, l’unica prospettiva che ci si schiude – fatti salvi i cosiddetti corridoi umanitari che, in un senso o nell’altro, fosse necessario attivare – è quella di considerare, in maniera estremamente machiavellica, quale scenario è maggiormente conveniente per l’Europa. Ridurre gli stati cuscinetto attorno a Mosca, ridimensionando l’influenza del Cremlino nell’area? Inasprire i rapporti con un importante fornitore di gas e, in ultima analisi, con un soggetto diplomaticamente, militarmente ed economicamente pericoloso? Altro? Non lo so, non sono un esperto. Pensiamoci, lo dico sul serio.

Ma pensiamoci, per favore, in modo laico. Senza inseguire un qualche “bene” che, in questa vicenda, mi sembra non risiedere da nessuna parte. Non facciamo i verginelli e vediamo di uscirne, per una volta, con qualcosa in mano.

Perché fare un sottaciuto e inconfessato tifo per Putin solo perché rappresenta l’antiamericano che ogni casapoundista o nostalgico di Craxi (essi vivono!) o comunista antiatlantico o grillino antieuropeista di casa nostra non è mai riuscito a essere, bè, rivela un quadro clinico piuttosto inquietante. Roba da chiudersi in analisi. Con uno bravo, però.Immagine

Sull’Euro nessun Referendum.

Euro sì o Euro no? La domanda comincia ad essere posta, da più parti, con una frequenza sempre più marcata. A molti, incoraggiati dall’esito delle ultime elezioni politiche, pare che la strada più opportuna da intraprendere sarebbe quella di un referendum. Il mio invito è molto semplice: non facciamo cazzate.

L’istituto del Referendum, come riteneva il vecchio socialista Arturo Labriola, è uno strumento pericoloso, che volge l’espressione della volontà popolare verso una forma plebiscitaria, rendendola soggetta a un rischio di manipolazione che tende a privarla di potere sostanziale nella stesso momento, e nella stessa misura, in cui la dota di potere formale.

Come tale, il referendum deve essere limitato – nel suo esercizio – alle materie rispetto alle quali sia possibile formulare un quesito non soltanto “secco” ma, per così dire, “limitato a se stesso”, capace cioè di esaurire gli effetti della risposta nel solo e precipuo ambito tracciato dalla domanda.

Aborto e Divorzio, in questo senso, mi sembrano rispondere positivamente a questi criteri. Quesiti come quelli formulati sull’acqua, sul nucleare e sul finanziamento pubblico ai partiti – solo per citarne alcuni – tendono invece a sollecitare risposte i cui effetti “esplodono” al di là del perimetro individuato dalla scelta di valore (ad esempio, acqua pubblica vs acqua privata) e richiedono interventi legislativi di supporto per stabilizzare il quadro riconfigurato dalla consultazione referendaria.

Come faranno, ad esempio, le aziende operanti nel settore idrico a fare fronte alla mancata remunerazione del capitale investito? Un problema del genere esula dal solo e precipuo ambito tracciato dal quesito referendario e tuttavia è dischiuso, o provocato, dalla risposta che viene data al quesito stesso. Pertanto, un referendum come quello sull’acqua – in ragione degli effetti “esplosi” dalla risposta – mi sembra quantomeno improprio o, se vogliamo, non congruo.

In questa prospettiva, il quesito referendario più improbabile, inopportuno e, forse, addirittura illegittimo che si possa immaginare è quello che alcuni – purtroppo molti – vorrebbero porre sull’uscita dalla moneta unica europea, l’Euro. I temi coinvolti dagli effetti di una risposta a questo quesito sarebbero tanti e tali da suggerire che a farsi carico della faccenda sia, eventualmente, l’assemblea elettiva – vale a dire il Parlamento – il quale dispone di strumenti legislativi più articolati e capaci, per questo, di rendere conto della natura sfaccettata e articolata dell’argomento.

Non c’è iconoclastia, in fondo, che non produca un’opposta ed equivalente iconocrazia. Cerchiamo piuttosto di fare a meno di tutte le icone, di tutti i totem, di tutti gli idoli, delle abrasioni cognitive prodotte nel discorso dalle spinte rabbiose e fideistiche con cui ci illudiamo – soprattutto in tempi di crisi – di uscire dall’Europa, dalla Costituzione, da noi stessi. Da dove, in fondo, non possiamo non essere. Facciamo funzionare questa democrazia, che la nostra Costituzione articola in una forma mirabile, invidiata da mezzo mondo. Chiediamole di discutere di tutto, magari anche di se stessa. Ma chiediamole anche di farlo nelle sedi in cui ha senso che questo accada.

Non al cesso.