La frase dell’Occidente

Non è uno scontro tra civiltà, è vero. Gli attentatori sono nati e cresciuti nell’Europa del Diritto e della Rivoluzione Francese.

E allora, se di civiltà si tratta, è una civiltà che inciampa in se stessa.

Così come trovo pietosi i giornali che ieri titolavano “Questo è l’Islam” o “Strage islamica”, trovo altrettanto vaporose, anche se meno indegne, le spiegazioni panassolutorie che – da sinistra – dissolvono tutto nella grande vicenda del conflitto fra Nord e Sud del mondo, fra chi detiene e chi no, fra chi si permette il lusso dei diritti e quelli che ne pagano il prezzo all’altro capo del mondo senza poterli a loro volta maturare.

Questa volta lo schema non regge.

“Loro”, questa volta, siamo noi. E per davvero. È tutta “roba nostra”, interna, dalla A alla Z. Facciamocene carico e basta.

E per farcene carico tocca chiedersi come mai una proposta del genere riesca a fare breccia, o addirittura a maturare in relativa autonomia, nella testa di persone che in vita loro hanno visto più Mc Donald che minareti, più chiappe che burqa, più XBOX che edizioni del Corano. Cosa la rende appetibile? La follia di queste persone? Troppo semplice, troppo comodo, troppo “farmaceutico”. Sociopatici e psicopatici, ovviamente, non mancheranno ma le reclute europee dell’Isis cominciano a essere un tantino troppe per pensare di affidarsi a salvifiche secchiate di Torazina.

E allora eccoti Salvini.

Toglie la mano dal culo di una leghista compiacente (chiappe), appoggia il doppio cheeseburger (Mc Donald) vicino al suo Joypad (XBOX), mette in pausa “Milan – Napoli” e si prepara a rispondere.

Perché lui una risposta ce l’ha. Oh sì che ce l’ha. La colpa, per Salvini e Salvinisti, ricadrebbe su di un’Europa, trattata rigorosamente alla stregua di un ESSERE mitologico dalle oscure e lascive volontà, che non avrebbe più le palle di difendere la propria identità e le proprie radici (cristiane, e che altro se no?), un’Europa – in ogni caso – che non affermerebbe più nulla di suo e sarebbe ormai diventata un inerte ricettacolo di flussi migratori incontrollati, attraverso i quali – come un virus – si diffonderebbe il germe dell’estremismo. Wow! Fate attenzione, gente. Il periodo di incubazione pare piuttosto breve: vi addormentate come devoti mariani e vi svegliate Salafiti. E avete fatto così in fretta che l’arabo, ancora, non l’avete imparato, quindi brancolate nel salotto di casa posseduti da una lingua che blaterate senza conoscere e schiacciate forsennatamente il telecomando della tv cercando di far esplodere Enzo Miccio.

No, ovviamente non è nemmeno questo. Perché ok inciampare, ma non così.

Il corto circuito è più ampio.

La cultura del Diritto entra in crisi quando viene meno l’orizzonte pratico su cui esercitarla. Stabilire il carattere “incomprimibile” dei diritti della persona significa, cioè, assicurarle gli strumenti minimi per realizzarsi, strumenti che tendono però a diventare inutili nella misura in cui l’orizzonte fattivo di questa realizzazione si sposta gradualmente in avanti, fin quasi a sbiadire o – in alcuni casi – a rendersi indisponibile, invisibile, irraggiungibile. E allora i diritti della persona, e la storia gloriosa della loro conquista, restano fra le mani come frasi sospese, a cui manca un complemento, una chiosa.

E qui, forse, scatta il corto circuito più significativo.

Perché il tratto più caratteristico della cultura occidentale è, da sempre, il moto a luogo, l’inesausto rilancio di un lasso – fisico e/o immateriale – da riempire di attesa, desiderio, speranza, volontà, progetto. Se questo lasso viene meno, se dal lasso si passa cioè al suo collasso, se non si riesce più a concepire il progetto o a dare credito allo spazio in cui questo dovrebbe svilupparsi e realizzarsi, ecco che sorge un problema. È un problema strutturale, inconscio, addirittura “tecnico”, che riguarda in eguale misura la cultura liberale e quella d’ispirazione e memoria socialista – entrambe vocate al moto a luogo, entrambe tese alla realizzazione della persona, poco importa – in questa sede – che tale realizzazione si specifichi nell’individuo o nella collettività.

Qualcuno una volta ha detto che il senso non conosce il proprio “fuori”. L’insensatezza, l’assenza di senso, non esiste, non si dà. A un senso che non sta più in piedi, semplicemente, se ne sostituisce un altro, che funzioni meglio. E in questa nostra Europa, che non dispiega più alcun progetto e non sa più come chiudere la sua frase, quella proposta omicida, terroristica e assassina non manca affatto di senso, non è minimamente folle. Finiamola con i riferimenti alla cecità, al buio, all’insondabile, all’arcano, all’ommioddiochecazzo. Quella proposta è lucida, perfetta: o ce ne rendiamo conto oppure dovremo rassegnarci a vederla, veramente, dilagare. Tanto per cominciare funziona meglio, molto meglio di qualunque Cultura del Diritto. Perché anziché offrire la prospettiva di un’altra e diversa realizzazione, esposta a frequenti fallimenti, sostituisce il senso della realizzazione con il senso del martirio, il moto a luogo con la fine, il rilancio con il crollo, dando a tutti questi termini accezioni e qualifiche positive. In questo, per altro, è aiutata dal fatto che molte di queste nuove “reclute” sono già “sacrificate” (crisi, disoccupazione, indigenza, ignoranza, degrado, quello che vi pare) e mancavano solo di qualcosa che riconoscesse al loro sacrificio, o a un altro sacrificio (il martirio), un valore ineguagliabile, tale da trasformarli da reietti (o poco più) in eroi (o poco meno).

E funziona meglio anche perché offre loro la possibilità di percepire un radicamento che l’Occidente, evidentemente, preclude loro. È un radicamento paradossale, che li connette idealmente e di fatto a una causa illocata, priva cioè di luogo, ma anche sgrammaticata, buttata nel mondo come un tiro cieco di dadi su un tavolo unto e che, tuttavia, è più autentica – sulla loro pelle – delle comunità europee in cui sono nati, in cui sono cresciuti, in cui si trovano e di cui, con ogni probabilità, sentono di non fare più parte.

In tutto questo, mi pare ovvio, l’immigrazione conta ZERO, e forse pure meno.

Da questo punto di vista l’Italia corre un rischio fin ora sottovalutato, e in realtà assolutamente peculiare. L’astensione e la fluidità evidenziata dagli italiani nelle urne, dove i pesi si spostano con la velocità di esseri alati, tradisce la fragilità del credito di volta in volta concesso al politico di turno (Grillo, Renzi, Salvini). Alla diffusione del malaffare si accompagna una diffidenza sempre più aspecifica nei confronti della politica e questa diffidenza, proprio perché aspecifica, rappresenta un terreno molto fertile nel quale una proposta di radicale e adolescenziale purezza, come quella terroristica, può attecchire.

Anche perché, vale la pena di ricordarcelo, il nostro baluardo al momento è Angelino Alfano, considerazione che dovrebbe suggerirvi una certa indulgenza nei confronti di chi – avendoci pensato – sentisse l’impulso di agguantarsi a piene mani i gioielli di famiglia.

Certamente, come diceva il premier norvegese dopo Utoya e come ha ribadito oggi anche Gino Strada, occorre reagire con “più apertura e più diritti”. La Cultura del Diritto è per definizione espansiva, altrimenti perde il tratto esplorativo che la rende una straordinaria ricerca sull’uomo e si trasforma in qualcosa di più asfittico e tremulo, velocemente archiviabile. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, insomma, è una torsione liberticida del tipo di quella che si è avuta negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, con il Patriot Act. Dobbiamo però sincerarci che questa “apertura” non venga solo ampliata ma anche percorsa e riempita di contenuti. Apertura, insomma, “de che”? Per pensare, soprattutto, cosa? Secondo quali logiche e con quali obiettivi? E dobbiamo preoccuparci, inoltre, che questi diritti non vengano solo ribaditi ma anche fruiti, esercitati, favoriti, tradotti nei progetti delle persone e riflessi nei loro risultati.

Diciamola in maniera più brutale. Nel mercato delle idee, la Cultura del Diritto non può accontentarsi di essere “giusta” (qualunque cosa questo significhi): deve tornare a essere conveniente.

Perché ora come ora corriamo il grosso rischio di sembrare dei cretini che fanno la spesa, la lasciano in macchina, si chiudono in casa e muoiono di fame senza capire perché.

La parte malata, al momento, siamo noi. I terroristi no: purtroppo quelli stanno da Dio.

“I palestinesi? Possono morire tutti” (gli accademici, l’inconscio collettivo e l’avamposto occidentale)

gaza

10 morti.

Non posso parlare del conflitto Israelo-palestinese. Non ne so abbastanza.

40 morti.

Posso parlare, però, dell’opinione pubblica italiana, nella quale sono immerso da lungo tempo.

64 morti.

Non parlerò, però, delle fazioni tifose, che puntualmente saltano fuori in mancanza di altre competizioni che consentano loro di schierarsi da qualche parte. Non credo sia necessario spendere parole per chi difende Israele in nome del suo status di democrazia persa nel mondo brutto e cattivo dell’Islam o per chi indossa una kefiah e solidarizza con un fronte armato a vocazione religiosa di cui in realtà non condivide (e non sa) quasi nulla. Considero queste posizioni ugualmente cretine e dei cretini non parlo.

115 morti.

Parlo più volentieri di una terza categoria. Gli osservatori. I politologi da toilette, quelli che seduti sulla tazza sfogliano l’Espresso, Limes, il Corano (comprato il giorno prima perché avere in casa solo la Bibbia, in questa fase, li faceva sentire sporchi dentro) e dopo aver azionato lo sciacquone escono dal bagno nella sardonica e amara consapevolezza d’essersi affrancati dalla litigiosa superficialità del mondo.

120 morti.

Li chiameremo “accademici”. Gli accademici non parteggiano. Scuotono la testa perché sanno che la loro preziosa visione delle cose, basata su un approfondito esame della posta in gioco, è minoritaria per definizione. Cosa sanno realmente del Medio-Oriente? Praticamente nulla, in realtà. Ma si stanno documentando e, scambiando i mezzi con il fine, eleggono il documentarsi a obiettivo primario della civiltà.

140 morti.

È un vero peccato che Palestinesi e Israeliani, dopo tutto, non si fermino un momento per andare al bagno e documentarsi un po’ su loro stessi.

150 morti.

Ovviamente gli accademici parlano malvolentieri dei morti, perché fare retorica sul dolore non sarebbe degno.

160 morti.

E allora parte il pippone solonico su quanto sia facile tifare per questo o per quello e su quanto invece sia più difficile, ma doveroso, comprendere le ragioni profonde che stanno dietro a quel conflitto. A questo punto il fiume si sta già ingrossando ma la piena arriva in fretta: la geopolitica, gli USA, i califfati, le primavere arabe, il Mossad, la Russia, la crisi Siriana, lo scenario iraniano in veloce mutamento, e la Giordania? Oh ma la Giordania?, la Bibbia, il Corano, Hamas, il Likud, l’Olocausto, la guerra dei sei giorni, il Sionismo, la diaspora, la fuga dall’Egitto, Mosè, il ruolo perduto dell’Italia nell’area mediterranea, ti ricordi Craxi e la crisi di Sigonella?, D’Alema che dopo tutto, Andreotti che con Arafat si andava via che era una meraviglia, e spiace – alla fine – non trovare un’ultima rubrica che metta in evidenza come il regime alimentare osservato dalle due fazioni non aiuti a fornire al cervello le giuste vitamine per attivare l’enzima della pace.

230 morti.

Facile dire no alla guerra.

Facile condannare Israele.

Facile gettare fango su Hamas.

Per carità.

L’accademico – se solo gli prospettate una di queste cose – se ne ritrae schifato che manco un gelato alla merda e torna subito a leggere qualcosa sugli sport praticati nel tempo libero dagli arabi israeliani, un aspetto della vicenda che in questo clima da stadio rischiava di passare sotto silenzio e che invece è ovviamente fondamentale per capire di cosa stiamo parlando. E giù letture. Alla fine bisogna ricorrere al Guttalax per avere di che chiudersi in bagno senza destare sospetti. L’unica voce di spesa che supera quella delle riviste specializzate, in questa fase, è quella per la carta igienica.

250 morti.

Ora, volete mettere in crisi un accademico? Chiedetegli una priorità. Andate lì e gli dite: “Tesoro, senti, puoi uscire un attimo dal bagno? Allora, qua ormai siamo a 300 morti. Ho capito che ancora non abbiamo analizzato il DNA dei capelli trovati sulle spiagge di Gaza, ma fra tutte le questioni che sollevi con tanta ponderazione ti dispiacerebbe indicarmi una priorità? Ti dispiacerebbe dirmi qual è, secondo te, la cosa che va fatta per prima?”

302 morti.

La priorità è piuttosto facile da individuare: interrompere il massacro, evitare che il numero dei morti aumenti. E visto che quei morti sono al 98% palestinesi, la priorità è fermare Israele. Punto. Non perché si debba tifare per Hamas ma perché i morti li fa Israele. Priorità, appunto.

Facile metterla così, dirà l’accademico, ormai sommerso dai suoi approfondimenti e costretto, in emergenza, ad usarne alcuni come carta igienica.

340 morti.

Magari fosse facile metterla così. Non è facile per niente. Anche il Papa – che non ha un elettorato davanti al quale farsela sotto – si limita a dichiarazioni generiche, cose del tipo: basta alle violenze e no alle cose brutte. Nessuno fra quelli che contano qualcosa, in Europa e tanto meno negli Usa, si azzarda a chiedere che Israele sospenda l’eccidio. Tutti quanti sappiamo che si tratta di questo: un eccidio, un genocidio, uno sterminio scientifico e programmato. Al massimo, tuttavia, capeggiati dalla nostra tribù di accademici, siamo disposti a manifestare amarezza per la tragedia umana (stando ben attenti a non darle colore o identità), salvo poi tirare i remi in barca quando si tratterebbe di individuare i responsabili e mandare loro un messaggio chiaro. Perché?

350 morti.

A questa domanda, per piacere, non fate rispondere l’accademico che dentro di voi si passa la mano sotto il mento. Chiudete il saggio sulla crisi armena e sulla latitanza diplomatica della Turchia e ammettete a voi stessi una cosa. Ammettete a voi stessi quello che nessuno dice. Quello che non si può dire.

E cioè che alla fine, a noi, noi italiani europei occidentali americani atlantici come ci pare, a noi insomma, va bene così. Ammettete a voi stessi che sotto sotto, fra le pieghe di un inconscio collettivo nemmeno troppo inconscio, il nostro cuore batte forte per i missili che con tanto eroismo si schiantano su Gaza, facendo piazza pulita di morettini dall’aria poco raccomandabile, grandi o piccini che siano. Ammettete a voi stessi che Israele campeggia nel vostro immaginario, anzitutto, come avamposto occidentale nella terra del burqa, un avamposto a cui tutto è concesso perché tutto ciò che l’attornia appartiene a un modello di civiltà che non è il nostro e di cui, in fondo, non ci può fregare di meno. Ammettete a voi stessi, a voi stessi accademici, a voi stessi osservatori, a voi stessi teorici da toilette, a voi stessi geopolitologi in botta di guttalax, ammettete a voi stessi che i Palestinesi possono morire tutti, dal primo all’ultimo.

370 morti.

Ammettete a voi stessi che l’attitudine a questo patologico e compulsivo approfondimento è un modo per prendere tempo e consentire alla tragedia di consumarsi come meglio crede. Nella peggiore delle ipotesi, in fondo, sarete colti a studiare e nessuno potrà accusarvi di nulla. Ammettetelo.

E provate a pensare, per averne la riprova, a che reazione avreste se la situazione fosse a parti invertite, con Hamas che massacra gli Israeliani con bombardamenti a tappeto e incursioni di terra. Le navi di mezzo mondo sarebbero schierate davanti a quelle coste a spolverare i Palestinesi dalla faccia della Terra, e col cavolo che perdereste tutto questo tempo a documentarvi, ad approfondire e a nascondervi dietro le clamorose foglie di fico di cui in questi giorni amate addobbarvi. Saremmo tutti ebrei, altro che Kennedy che fa il berlinese.

Perché i morti non sono tutti uguali.

E i loro, i morti di quelli lì, non contano niente. Ammettetelo, su.

Per questo possiamo perdere tempo a fare gli accademici. Per questo rinunciamo a darci una priorità.

400, 450, 480 morti.

Fate un favore a voi stessi. Ammettetelo e finitela di prendervi in giro.

L’unica cosa peggiore di un crimine è l’incapacità, sottoscrivendolo, di averne il coraggio e la faccia.

500 morti.

Cazzi loro“: il riassunto dei vostri studi, fondamentalmente, è questo.

quelli che sai che figo essere come Putin?

La crisi ucraina fornisce alla stadiesca opinione pubblica italiana l’ennesima occasione per suddividersi in fazioni opposte e twittanti. C’è chi tifa per chi ha costretto Janukovyč alle dimissioni e vorrebbe che l’Ucraina fosse integrata all’Unione Europea, senza darsi la pena d’andare oltre l’elegia del ribelle per vedere cosa entri nella curiosa composizione di questo fronte politico. Ci sono, poi, i molti debunker che, scottati dalle primavere arabe, ci tengono a ricordarci che non tutte le ribellioni sono buone e giuste, che – in fondo – in Ucraina ci sono anche persone di lingua russa, che la Russia non è peggio degli Stati Uniti, che prima di spalare merda su Putin sarebbe meglio guardassimo in casa nostra, ecc. ecc.

Inviterei tutti a rendersi conto che in questa partita, dentro e fuori l’Ucraina, il più buono ha la rogna e che, dunque, l’unica prospettiva che ci si schiude – fatti salvi i cosiddetti corridoi umanitari che, in un senso o nell’altro, fosse necessario attivare – è quella di considerare, in maniera estremamente machiavellica, quale scenario è maggiormente conveniente per l’Europa. Ridurre gli stati cuscinetto attorno a Mosca, ridimensionando l’influenza del Cremlino nell’area? Inasprire i rapporti con un importante fornitore di gas e, in ultima analisi, con un soggetto diplomaticamente, militarmente ed economicamente pericoloso? Altro? Non lo so, non sono un esperto. Pensiamoci, lo dico sul serio.

Ma pensiamoci, per favore, in modo laico. Senza inseguire un qualche “bene” che, in questa vicenda, mi sembra non risiedere da nessuna parte. Non facciamo i verginelli e vediamo di uscirne, per una volta, con qualcosa in mano.

Perché fare un sottaciuto e inconfessato tifo per Putin solo perché rappresenta l’antiamericano che ogni casapoundista o nostalgico di Craxi (essi vivono!) o comunista antiatlantico o grillino antieuropeista di casa nostra non è mai riuscito a essere, bè, rivela un quadro clinico piuttosto inquietante. Roba da chiudersi in analisi. Con uno bravo, però.Immagine