“Portiere di merda”? Perché no?

La Juventus è stata multata di 5.000 euro per gli insulti che i bambini presenti allo stadio hanno indirizzato al portiere dell’Udinese.

Magari sarebbe il caso di tranquillizzarsi un attimo.
Di respirare.
Di rendersi conto, senza tanti strepiti, che si può essere persone educate e civili e poi, senza alcuna contraddizione, andare allo stadio e dare della “merda” all’avversario, all’arbitro, al presidente della tua squadra, al guardalinee, alla moglie del portiere, alla sorella del raccattapalle e alla nonna di Zidane. A qualunque età.

La faccenda per me è chiarissima: non essendo più in grado di essere civili come “società” intesa nel suo complesso, non avendo più tempo da dedicare ai figli, non essendo più in grado di spiegare loro dove finisce lo stadio (e/o il carnevale) e dove comincia tutto il resto, finiamo per essere sommersi da un senso di colpa abominevole, e ci fa molto piacere poter coprire questo senso di colpa pescando dalla vasta gamma di foglie di fico di cui disponiamo, come se quello che i ragazzi non hanno imparato fuori dallo stadio potessero (o, peggio, dovessero) impararlo dentro o come se, in ragione dello stesso principio, fosse colpa di un videogame se fra i più piccoli vola un cazzotto di troppo.

Fate fare alle famiglie quello che devono fare le famiglie. Allo stadio si va per dimenticare un po’ delle buone maniere apprese a casa. Un po’, certo. Non tutte. Entro certi limiti, penso che sia perfino salutare e, a suo modo, formativo. Ma fino a quei “certi limiti” bisogna pur spingersi, altrimenti non li si comprenderà mai per quello che sono: cazzate un po’ infantili, che fanno paura solo se te le fai raccontare da Don Mazzi. Perché nella realtà, invece, il portiere che insulti manco ti caga, o se ti caga pensa ai soldi che prende e ride di te, o al massimo si gira e ti manda a quel paese e tu gli rispondi e finisce lì. E fa tutto piuttosto ridere, in fondo. Finché, ovviamente, non lo trasformi nel banco di prova della civiltà, per non dover ammettere – a ben vedere – d’aver fallito in tutti quegli ambiti in cui la serietà, il rispetto e l’educazione s’imporrebbero davvero.

Perché insistere con l’antidoping? Spunti di riflessioni a valle della vicenda di Lance Armstrong

Nei giorni scorsi è uscita la notizia secondo la quale anche l’USADA, la federazione ciclistica statunitense, si sarebbe allineata ai convincimenti dell’UCI (la federazione internazionale) circa il quadro accusatorio relativo alla posizione di Lance Armstrong, che per doping rischia di vedersi revocate le sette vittorie consecutive ottenute al Tour de France. Prove e testimonianze, secondo l’USADA, rileverebbero del “più sofisticato sistema di doping che sia mai esistito nel mondo dello sport”.

La vicenda di Armstrong è complessa, non soltanto perché riguarda un atleta tornato sul sellino, ad altissimi livelli, dopo aver sconfitto una grave malattia ma anche perché investe – a fine carriera – un uomo attivamente impegnato nel sostegno alla ricerca contro il cancro. Si tratta, tuttavia, di elementi che non devono in alcun modo inibire o adombrare la possibilità di una lettura assolutamente severa della vicenda. Anche perché, come sempre in questi casi, la faccenda non si risolve con il solo Armstrong. Nello stesso articolo di cui segnaliamo il link, infatti, si rileva come “anche in caso di revoca delle vittorie da parte dell’Uci, sarà difficile riassegnare il titolo visto che, chi più chi meno, i ‘beneficiari’ del provvedimento sono stati a loro volta coinvolti in vicende di doping”.

Aumentando di scala, il fenomeno esula dal mero ambito della giustizia sportiva e si configura come una vera e propria questione sociale. Tanto più oggi. L’attuale crisi economica, che in Italia si concatena e si alimenta di una parallela crisi morale, induce infatti alla continua ricerca di narrazioni eticamente vergini, incontaminate, che raccontino dimensioni dell’uomo capaci, nonostante tutto, di fornire esempi emulando i quali sia possibile figurarsi una linea di condotta, una via d’uscita, una speranza, una tensione al miglioramento. L’epopea storica del ciclismo, in questo senso, torna sempre buona, a partire soprattutto dalla classica figura dello “scalatore”, facile metafora di tutto quello che può essere superato con fatica, impegno, lavoro di squadra. Il giornalismo sportivo conosce il meccanismo e ne abusa senza remore, affidando le proprie cronache al navigato cesello di una retorica dell’intonso, nella quale la purezza dei panorami alpini diventa per osmosi immediata la purezza di chi li scala. A quel punto arriva lo scandalo di turno, l’atleta dopato, e le uova nel paniere – puntualmente – si rompono sempre sul più bello, quando l’ennesimo attacco collettivo di “smemorite” stava nuovamente per accreditare l’idea del ciclismo come nobile eccezione all’imperante disfatta morale dei nostri tempi (e degli altri nostri sport, rispetto ai quali il ciclismo gode ancora di un credito superiore che, nei fatti, non si spiega).

Quale velocità di salita dovranno raggiungere i corridori perché venga meno questo stolido garantismo di facciata? Davanti a un atleta che facesse il Mortirolo a 50 chilometri orari riusciremo, per una volta, ad essere felicemente scorretti, rinunciando ad ammettere che lo stesso sia innocente fino a prova contraria? Oppure, ancora una volta, guarderemo con ammirazione le gesta dell’automa, scommettendo sul fatto che  nessuna analisi delle urine ci rovini anzitempo la festa?

L’unica cosa da fare, forse, è abolire l’antidoping, in tutti gli sport. Liberalizzare e legalizzare qualunque pratica medica applicata allo stato di forma dell’atleta. Lasciate che prendano qualunque cosa, tutto quello che vogliono. Devono morire come mosche, per rendersi conto della strada che hanno intrapreso. Così i giornalisti, che devono essere costretti a raccontare un eccidio, per rendersi conto dell’assurda leggerezza con la quale fino ad oggi hanno parlato di eroi e campioni. è brutto dirlo, ma l’unico modo per risolvere un problema come questo, sistematicamente e programmaticamente misconosciuto nelle sue reali dimensioni, è quello di portarlo alle sue estreme conseguenze.

http://www.repubblica.it/sport/ciclismo/2012/10/10/news/usada_prove_doping_armstrong-44268258/?ref=HRERO-1