morire di cultura (o del purismo di certi direttori artistici)

Nel mondo della cultura e, in particolare, delle arti (teatro, musica, cinema, ecc.) esistono due fondamentali tipologie di operatori, che differiscono profondamente tra loro.

Ci sono, da un lato, quelli destinati ad avere successo, a svilupparsi e fare business, perché coniugano la qualità della loro proposta (che è una condizione necessaria ma non sufficiente) alla capacità – assolutamente manageriale – di trasformarsi in un valore aggiunto per chi decide di sponsorizzarli.

Ci sono, poi, quelli che non hanno ancora capito che le sponsorizzazioni sono, essenzialmente, investimenti e che, nella misura in cui vengono ridotte a semplici voci di costo (senza ritorni di alcun tipo per gli sponsor), sono destinate ad essere tagliate da chi le eroga, lasciando tutti a secco.

Se lo Stato non è più in grado di sostenere manifestazioni e rassegne varie e se il pubblico pagante non è sempre sufficiente a reggere la baracca, il rapporto con gli sponsor deve cambiare radicalmente. Deve cambiare, in particolare, lo sponsee (soggetto sponsorizzato), cui tocca una progettualità nuova e specifica, parallela (ma non meno essenziale) alla propria arte di riferimento. Elaborare idee, opportunità e soluzioni per rendersi appetibile agli occhi degli sponsor è un momento strategico nella vita di un operatore culturale, troppo spesso vittima di pruriti intellettuali che ne fanno un interlocutore inviso e sconveniente.

Non è più possibile, detto altrimenti, trincerarsi nel purismo di certi direttori artistici, convinti che all’arte sia tutto dovuto e, in ragione di questo convincimento, incapaci di pensarla in funzione di qualche altra forma di comunicazione che se ne serva per fare marketing, branding, customer care, corporate reputation e quant’altro interessa agli sponsor.

Questa pletora di prudentissimi custodi dell’eccellenza è ormai dimentica della cosa più importante che dovrebbe custodire: la possibilità, cioè, che quell’eccellenza – nei fatti – sopravviva.

Può così capitare che un possibile sponsor, ricevendo il direttore artistico di turno che viene a presentargli la rassegna da sponsorizzare, si senta dire da quest’ultimo: “A noi fa piacere aprire con voi una relazione ma sia chiaro che”.

“Ma sia chiaro che”. Ecco le mani avanti. Mani avanti contro il demone dell’interesse aziendale, mani del corpo esanime di una cultura che preferisce svanire illibata piuttosto che vivere, produrre altra ricchezza e rilanciarsi. Di questa cultura, in effetti, non solo si mangia pochino ma – spesso – si finisce per morire.

Di una morte, sia detto senza mezzi termini, sacrosanta e benvenuta.