Il Palazzo e la gente. Fenomenologia di Matteo Renzi.

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Con Matteo Renzi il PD vince. Di questo sono piuttosto sicuro. Si tratta, in fondo, di una novità, visto che dal ’94 a oggi non ho mai avuto l’impressione che il centrosinistra potesse farcela. Anche quando le coalizioni guidate da Romano Prodi riuscirono a vincere, in effetti, le mie impressioni della vigilia erano di segno opposto.

Con Matteo Renzi il PD vince. Non perché il Berlusconismo si sia esaurito e occorra, a fronte del vuoto creatosi a Destra, rimpiazzarlo con un altro paradigma politico-culturale dominante. Il Berlusconismo non si è esaurito (semmai, e anche qui sarei molto prudente, si è esaurito Berlusconi) e Renzi ne rappresenta semplicemente l’interprete più avvertito, aggiornato e capace di parlare a quello che può essere definito “popolo della crisi”.

Benché non tutti patiscano la crisi in eguale misura, occorre riconoscere che questa crisi è forse la più estesa, storicamente, per categorie e ceti sociali coinvolti, al punto che – banche a parte – è difficile individuare, oggi, un soggetto che sia sostanzialmente immune ad essa. Il popolo della crisi è dunque il popolo italiano tout court, trasversale – per definizione – agli elettorati di destra e sinistra e, addirittura, poco incline a considerare la politica (di questa o quella parte) come lo strumento per uscire dalla crisi stessa.

Renzi, certamente, dichiara che il bacino di consenso raccolto attorno alla sua persona esprime un coraggioso rilancio della fiducia nella (buona) politica, ma non c’è istituto della politica fin qui conosciuta che – almeno a parole – non abbia conosciuto gli strali del sindaco di Firenze, e in questo senso non è un caso che Renzi stesso abbia dichiarato, in un’occasione sfuggita ai più, di essere “più Grillo di Grillo”. La politica contro cui Renzi, in modi più eleganti ma sostanzialmente analoghi a quelli del comico genovese, si scaglia è esattamente la politica che “fa differenza”, la politica cioè che pretende di rappresentare la crisi e le strategie per uscirne da destra o da sinistra. A Matteo Renzi, che mutua il sentimento del popolo della Crisi, non interessa e anzi ritiene superata la politica che fa questa differenza, ed è semmai più attento a una politica di segno diverso, post-ideologica, che “fa differenza” fra il Palazzo – immagine archetipica di tutto quello che è vecchio, stantio, sordo, distante, autoreferenziale, rottamabile e pensionabile – e la gente – sorta di istituzione nuova, magmatica e diffusa nella quale Renzi vuole insediarsi per esercitarvi quel potere che il Palazzo potrà poi, semplicemente, ratificare.

Ecco l’aggiornamento del Berlusconismo, che non sostituisce più – secondo uno schema abusato e venuto a noia – la sede pubblica del Primo Ministro (Palazzo Chigi) con l’abitazione privata dello stesso (Villa Certosa), e che invece assume Palazzo Chigi come il luogo in cui portare al governo “la politica della gente”. Una sorta di “palazzo en plein air”, che non ha più un tetto o, se vogliamo, un limite perché quel limite è, attraverso Renzi, la gente stessa, il popolo della crisi, il popolo italiano. In continuità con Berlusconi, rimane cioè il culto della persona e del rapporto profondo, prepolitico, somatico, emotivo con il suo fronte di consenso, non più però declinato secondo il modello della “star”, amata perché percepita come inarrivabile, bensì declinato secondo il modello del “compagno di viaggio”, amato perché percepito come proprio “calco”, deluso come siamo delusi noi, stufo come siamo stufi noi.

Ecco perché Renzi ha ripetuto, subito dopo la vittoria alle primarie, che non vuole diventare “l’uomo dei Palazzi” ed ecco perché dice spesso che gli Italiani sono meglio della classe politica di questo Paese: Renzi non vuole, alla maniera della classe politica di cui parla, rappresentare gli Italiani; Renzi vuole esserne il calco, insignito del potere in ragione di questa sua qualità mimetica. Quando Renzi dice, dunque, che gli Italiani sono meglio della classe politica di questo Paese, non sta facendo il modesto: in questo quadro, lui fa parte degli Italiani, non della classe politica.

Proprio per questo, Renzi teme anzitutto i suoi, cioè i “Renziani”, coloro che – sostenendolo all’interno del PD contro altri candidati e contro altre correnti – ne manifestano la natura politica più “classica” e in qualche modo ne oscurano o ne schermano il rapporto diretto con la gente, che è quello per cui lui viene votato. Renzi è sincero quando dice che nel suo PD non c’è posto per le correnti. Ed è ancora più sincero quando dice che la prima corrente a doversi sciogliere è proprio quella dei Renziani. Nei prossimi mesi, credo, assisteremo a una “notte dei lunghi coltelli di plastica”, durante la quale molti Renziani si renderanno conto che Renzi li considera non già coautori del suo messaggio politico, persone cioè assieme alle quali progettare e porre in essere l’illusione post-ideologica della “politica della gente”, bensì destinatari del suo messaggio politico, persone cioè alle quali dare a bere – al pari di chi l’ha votato – la realtà post-ideologica della “politica della gente”. Una sorta di epurazione morbida e assolutamente endogena, capace come tale di accreditarlo ulteriormente presso l’elettorato di sinistra, di centro e di destra a cui si è rivolto e a cui si rivolgerà.

Con Matteo Renzi il PD vince. Che cosa diventi il PD con Renzi, bè, questa è un’altra storia.

In odore di comunicazione. L’illusione di un ventennio afasico che si piace poeta.

La chiosa peggiore che possiamo dare a questi ultimi vent’anni di politica italiana consisterebbe nel salutarli come un periodo in cui ci siamo perduti nel circo equestre della comunicazione. Non possiamo mentire a noi stessi in maniera più subdola.

Una tale conclusione non riflette nulla che esuli dalla presupposizione, purtroppo invalsa e prevalente, di una relazione dicotomica secca fra un “mercato marocchino” della Comunicazione, ricettacolo di ogni nefandezza, e una sorta di monolitica virtù intesa come dismissione omertosa di sè nella realtà.

A questa dicotomia va rinfacciata un’incosistenza grave, di diritto e di fatto, che le deriva dall’incapacità di spiegare come mai, storicamente, la lirica apotropaica del fattuale, cioè del dato che ci salva perché ci astiene dal dubbio sulla sua datità, abbia sempre fornito una giustificazione quasi gestaltica a chi ha voluto risolversi – non foss’altro che per l’insorgere di una crudele necessità poetica – in una comunicazione senza comunicato, in una convenienza reciproca.

Il peccato della comunicazione contrapposto alla virtù del fatto, per altro, definisce una relazione il cui carattere polemico non è morale, ma solamente percettivo. A livello morale vige, piuttosto, un nesso complementare: da un lato, non hai traccia della più sacrosanta fattualità se non grazie al fango che, comunicando, le getti sotto per dichiararne il passaggio attraverso l’orma (omertosa, certo, ma non sulla propria esistenza); dall’altro lato, i mondi fantastici provvisti dalla tua comunicazione, merci all’asta del mercato marocchino di cui sopra, non possono non incorporare sezioni o funzioni del fattuale, non essendoci data possibilità di produrre figure senza integrarvi (o senza costituirle attraverso) figure pregresse.

Gli ultimi vent’anni di politica italiana, lungi dall’essere stati il tripudio di una comunicazione dimentica del reale, possono essere letti – semplicemente – come una pessima gestione di quella relazione complementare. L’inemendabilità di questa relazione non ci avrebbe impedito di imporle un’etica; se non l’abbiamo fatto sono solo cazzi nostri. Non vi spieghereste, altrimenti, il senso, inerziale e vegetale, di afasia che vi trasmette il 90% dell’umanità, un percetto alquanto strano se fossimo – davvero – in preda a piene ed esondazioni della comunicazione.

Celata dal provvido rumore di chincaglieria prodotto dai tanti strumenti di comunicazione, la politica italiana si è pubblicamente arresa alla realtà, ha rinunciato a cambiarla, l’ha assunta come alfa e omega del proprio orizzonte. Se il Berlusconismo esprime qualcosa di più, in termini culturali, della semplice adesione alla vicenda politica di Berlusconi, questo qualcosa coincide con uno spietato realismo, filosofico e sociale, in cui chi detiene la realtà del potere impone il potere della sua realtà, senza che l’unilateralità di questa imposizione infici la solidità inconfutabile di ciò che per l’appunto impone: una realtà a tutti gli effetti e, in tutti i suoi effetti, normativa, non altrimenti operabile o riscrivibile. I discorsi affettuosi sull’ingenuità degli studenti che manifestano rivelano la profonda consapevolezza dell’ineluttabilità dell’esistente, che risuona in onda e fuori onda, on-line e off-line.

Negli ultimi vent’anni non abbiamo comunicato il mondo; abbiamo, semmai, prestato al Mondo (e ai dioscuri della sua ineludibilità) una miriade di media affinché ne apprendessimo che non valeva la pena di cambiarlo, affinché ci disinteressassimo a comunicare attorno ad esso, affinché ci volgessimo ad altro. Insomma: la comunicazione – dopo vent’anni – sarebbe una bella novità.