La “distanza” di Chavez e la sua elaborazione

DIstrazione

Le simpatie prescindono dai contesti. Questa è la loro forza e, al tempo stesso, il loro limite. Per Chavez, ad esempio, non ho mai nutrito una particolare simpatia. Il suo modello di democrazia “Participativa y Protagónica”, strutturalmente vicino alla sostanza politica di un’autocrazia ratificata dall’ovazione (in questo senso, si veda ad esempio l’istituto del Referendum Revocatorio introdotto dalla Costituzione Bolivariana del 1999), confligge con la maggior parte dei miei convincimenti politici, per lo più liberali. Il fatto che Chavez non mi stia simpatico, tuttavia, conta veramente poco. Ho trovato anzi piuttosto curiose, per non dire ridicole, le condanne e gli scetticismi piovuti a chiosa della vicenda, politica e umana, di Chavez da parte di molti osservatori nostrani, che non hanno mancato di illustrare lo scarto fra la Repubblica Bolivariana del Venezuela e il manuale delle perfette democrazie rappresentative che possiamo evincere dalle costituzioni europee più avanzate. Mi riesce oggettivamente difficile capire quale valore aggiunto possa essere ricavato da questi discorsi. Cosa vogliamo dimostrare? Che in Sudamerica non hanno avuto la Rivoluzione Francese? Non occorre dimostrarlo. Non ce l’hanno avuta e basta.

In Europa no. La conquista borghese delle libertà politiche e la costruzione ponderata dello stato di diritto sono patrimoni tendenzialmente acquisiti e dobbiamo tutelarne l’eredità. In questo senso l’ascesa di Beppe Grillo, nella misura in cui assume il volto di un attacco frontale agli istituti della nostra democrazia preposti alla mediazione e alla rappresentanza, dovrebbe farci presagire l’estrema prossimità fra una democrazia radicalmente diretta e la sua implosione autoritaria, che nel modello liberale a cui sono affezionato viene disinnescata – esattamente – dagli istituti di cui sopra. La proposta politica di Grillo sovverte le ragioni stesse del nostro Stato di Diritto e configura pertanto una soluzione tecnicamente eversiva. Essa, insomma, volge le spalle alla nostra Costituzione ed è su queste basi, alla luce – cioè – di quanto rischia di farci perdere, che può e deve essere contestata.

Non ci si può tuttavia lamentare della mancata difesa dello Stato di Diritto là dove non c’è niente da difendere. Nel 1999, Chavez sale per la prima volta al potere succedendo al governo conservatore di Caldera (1994-1999) e a quello socialdemocratico di Pèrez (1989-1993), durante i quali la sussistenza di un dispositivo elettorale formalmente democratico si era accompagnata alla violazione di elementari diritti umani, al mancato riconoscimento di altrettanto fondamentali diritti civili e, soprattutto, al totale abbandono delle istanze provenienti dalle fasce più disagiate della popolazione. Corruzione, repressione, prigionia politica, strategie economiche prone al saccheggio delle risorse nazionali – soprattutto petrolifere – da parte delle potenze straniere, sorda subalternità al Fondo Monetario internazionale, disoccupazione, sistema sanitario fatiscente, mancato contrasto all’analfabetismo, alla povertà, alla fame e alla malnutrizione. Quando Chavez entra nei palazzi del potere di Caracas, il quadro che ha davanti è questo ed è il quadro – in fondo – di una terra di conquista, tristemente tipico in Sud America.

Benché al Comandante Chavez si possa certamente contestare un atteggiamento tutt’altro che tenero nei confronti dei dissidenti politici e una gestione costantemente plebiscitaria del consenso, sarebbe falso negare che la sua politica ha dovuto affrontare, in primo luogo, urgenze umane e sociali rispetto alle quali l’articolazione compiuta e perfetta di uno Stato di Diritto, a partire – per esempio – da una corretta separazione dei suoi poteri, finisce per perdere non dico di valore ma certamente d’attualità. Dico questo da una prospettiva autenticamente liberale, affezionata in maniera sincera al rigore istituzionale delle democrazie rappresentative occidentali, non disponibile – per essere chiari – a negoziarne i profili con un materiale politico di risulta come Grillo, ma abbastanza elastica – tuttavia – da riuscire a includere nel proprio campo visivo anche il caso in cui qualcosa, come ad esempio la necessità di far sopravvivere la popolazione, esibisca dignità e rilievo tali da sopravanzarla, sospenderla, differirla, congelarla.

Se non vuole collassare sullo stesso cieco idealismo che ha sorretto la follia americana dell’esportazione militare della democrazia, il pensiero liberale deve dotarsi della capacità di riconfigurare le proprie priorità in funzione del contesto. Non credo, in assoluto, che le battaglie liberali possano essere archiviate da una comunità di uomini che aspira a definirsi civile, ma credo che esistano circostanze in cui altre battaglie richiedono di essere combattute per prime. In Venezuela queste battaglie sono diventate le Missioni Bolivariane di Chavez e i risultati di queste battaglie sono dati impressionanti, che aiutano a spiegare e dimensionare – anche al di là delle cifre – il lutto di questo Paese per la scomparsa del suo Presidente.

Inoltre, ammesso e non concesso che le democrazie occidentali possano ascriversi l’esclusiva titolarità della “civiltà”, occorre considerare la misura in cui il conseguimento, il mantenimento e lo sviluppo di quest’ultima sia stato fatto pagare, in qualche modo, alle aree del Pianeta meno sviluppate, laddove cioè non vige alcuna “pruderie” civilista e possono dunque essere riversati quei processi che lo Stato di Diritto, a casa nostra, trasformerebbe in qualcosa di meno conveniente. Un’altra riflessione possibile, detto altrimenti, riguarda il Sud del Mondo come vaso di scarico dell’entropia generata dai sistemi occidentali, nei quali la difesa dei diritti della persona sembra quasi – localmente – non avere costi (che invece ha e che sono semplicemente pagati altrove). Questo aiuterebbe a spiegare la risposta politica di tipo socialista o almeno solidarista che in Sudamerica sta ormai diventando prevalente, anche se con accenti e sfumature diverse (la politica di Lula non è certamente omologabile a quella di Chavez), e aiuterebbe soprattutto a spiegare come essa si specifichi in aperto contrasto, non soltanto ideale ma anche economico, ai modelli democratici occidentali, contro i quali vengono messe in gioco strategie di politica estera mirate e coordinate. Chavez, ad esempio, ha puntato molto sul rilancio dell’OPEC e sulla promozione dell’Alba (Alternativa Bolivariana para América Latina y el Caribe) costituita in contrapposizione all’Alca (Area di Libero Commercio delle Americhe) voluta dagli USA.

Fatico invece a spiegarmi il favore con cui una certa sinistra europea guarda all’esperienza di Chavez come se fosse un modello importabile e articolabile anche qui, nell’Europa delle democrazie rappresentativedell’equilibrio fra i poteri, del rapporto negoziale – certamente precario ma comunque vigente – fra libertà economiche e tutele sindacali, dei diritti civili e della loro faticosa e progressiva estensione. La crisi economica ha certamente acuito il problema della disoccupazione, peggiorato la situazione delle fasce meno abbienti della popolazione e divaricato la distanza della politica dalla realtà, ma credo sia molto pericoloso coltivare, qui, suggestione bolivariste, lasciandosi tentare dalla prospettiva di archiviare l’esperienza dello Stato di Diritto senza scommettere ancora sulle sue possibilità di riscatto. C’è una preoccupante irresponsabilità di fondo nell’invocazione di una piattaforma socialista che getti di fatto alle fiamme un percorso di maturazione democratica durato secoli e costato la vita a milioni di persone.

A questa sinistra, perennemente alla ricerca di casi e dimostrazioni che la confortino sulla realizzabilità dei propri ideali, Chavez piace, è normale che sia così e la cosa non mi crea alcun problema. Lo stesso sforzo di onestà intellettuale nel quale, da liberale, ho tentato di prodigarmi per evitare condanne decontestualizzate del bolivarismo venezuelano, vorrei però che si imponesse anche a coloro che ne celebrano, adesso, una sorta di culto e ne sognano – forse – una versione europea, spagnola, portoghese, greca, italiana. Sono molti i punti da cui è possibile partire per affrontare una riflessione che ha l’unico e imprescindibile obiettivo di preservare una nozione e una pratica di cittadinanza rimuovendo le quali non avremmo più ragione di definirci “liberi”. Ci si potrebbe interrogare, ad esempio, sul principio della separazione dei poteri e su come questo verrebbe rimesso in discussione, o quantomeno in tensione, nel quadro di una  democrazia “Participativa y Protagónica”.

Oppure, a un livello meno istituzionale, ci si potrebbe interrogare sulla natura politicamente eteroclita del fronte che in queste ore sta omaggiando il Comandante Hugo Chavez, un fronte – per intenderci – che raccoglie elementi della sinistra alternativa e internazionalista e movimenti della destra sociale, extraparlamentare e nazionalista (in Italia, ad esempio, Casa Pound). Nazionalismo e socialismo, in Chavez, si tengono assieme ma la loro armonia dipende da un’olistica delle idee prettamente sudamericana, grazie alla quale il pedigree politico del bolivarismo ha potuto integrare, per esempio, anche la fede cattolica (Chavez era un cattolico praticante) attraverso la Teologia della Liberazione. Questo genere di connessioni ideali, in Italia e – per lo più – anche in Europa, sono più difficili da tracciare, pressoché impossibili da declinare politicamente. Esse mancano, soprattutto, delle necessarie premesse antropologiche, tanto che – adesso – estrema destra ed estrema sinistra si contendono, con pezze d’appoggio parziali e – a loro modo – coerenti, la genuina titolarità del ricordo e dell’eredità di Chavez.

I morti della crisi nel fiume che scorre davanti a Grillo

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Uno degli aspetti più criminosi della proposta politica di Beppe Grillo, alimentatasi non soltanto del discredito nei confronti della politica ma anche delle concomitanti macerie della crisi, risiede nella strumentalizzazione del dissesto sociale e psicologico che percorre il Paese ormai da anni.

Il Movimento Cinque Stelle non è – ovviamente – responsabile della situazione in cui si trova l’Italia, ma l’ha certamente usata in maniera spregiudicata per catalizzare consenso e, dopo il voto, sta facendo di tutto affinché questa stessa situazione non si sblocchi, pena – in fondo – il venir meno delle ragioni stesse che hanno determinato il suo successo elettorale.

Nel giorno stesso in cui l’ennesima proposta di governo avanzata dal Partito Democratico viene rispedita al mittente, i morti di Perugia acquistano una coloritura particolare. Andrea Zampi, titolare di una scuola di formazione che operava nell’ambito della moda, entra negli uffici della Regione Umbria, a Perugia, e uccide Margherita Peccati e Daniela Crispolti. Dopodiché si suicida. Il mancato finanziamento del suo progetto, che si trascinava ormai dal 2009, pare avergli causato una forte crisi depressiva e, di qui, averlo indotto al gesto. Diamo ai fatti la loro giusta collocazione: Zampi non era esasperato dalla mancata formazione di un esecutivo stabile e la sua tragica vicenda si aggiunge, “semplicemente”, a una serie lunga e preoccupante di casi analoghi, che negli ultimi anni sono andati intensificandosi, facendo collassare una sull’altra cronaca nera e cronaca sociale. Niente di tutto ciò – sia detto a chiare lettere – può essere ascritto a una responsabilità oggettiva di Beppe Grillo e del M5S. Ci mancherebbe. Sono altri i politici chiamati a risponderne, a partire – per esempio – da quelli che hanno deliberatamente scelto di non adoperarsi affinché le logiche del Patto di Stabilità non finissero per congelare il portafoglio della Pubblica Amministrazione, devastando di crediti (anziché di debiti) piccole e medie imprese, ad ogni latitudine.

Di sicuro, adesso, c’è però questo: un Paese non governabile e non governato è un Paese che non può dare alcuna risposta alla crisi che conduce queste persone alla disperazione. Non so se la piattaforma proposta al M5S dal Partito Democratico prefiguri il migliore dei mondi possibili. Probabilmente no. Probabilmente, anzi sicuramente, si può fare di meglio e ci sono pochi dubbi circa il fatto che sarebbe meglio che i protagonisti di questa fase politica fossero altri. Detto questo, appurate insomma queste tristi verità, come se ne esce? Il parlamento, per balcanizzato che sia, è ormai disegnato e la responsabilità, al suo interno, si divide fra tutti i presenti. Non ci può essere qualcuno che – in ragione di un passato meno compromesso – si senta affrancato dall’onere di una partecipazione attiva.

Le mani lorde di sangue, che gettano i cadaveri della crisi nel fiume della Storia, non sono mani a 5 stelle. Ma sono quasi tutti grillini quelli seduti, più a valle, lungo le sponde del fiume. La loro colpa più grave, in questi frangenti, è l’attesa, il calcolo, la sterile rivendicazione di una persistente verginità politica. I corpi morti che nel frattempo transitano loro davanti, infatti, non sono quelli dei loro nemici. Sono quelli dei “cittadini”, di lavoratori e imprenditori che hanno rinunciato a credere che un miglioramento sia possibile, sono quelli di chi – forse – ha persino votato per loro.

In tutto questo, però, il Partito Democratico si sta esibendo in una pessima performance. Non parlo delle sue responsabilità storiche (dal 2001 ad oggi, a conti fatti, ha governato solo per un biennio e con una risicatissima maggioranza al Senato) e non parlo nemmeno della sua attuale strategia, piuttosto obbligata – in fondo – dato l’esito delle elezioni. Mi riferisco soprattutto alla sua oppiacea distanza dal Paese Reale che, a dispetto dello schiaffo del voto, perdura ancora oggi. A tradirla e a darle voce ci ha pensato ieri sera Pippo Civati, il volto nuovo che assieme a Renzi dovrebbe rappresentare la carta da giocarsi nel futuro più prossimo. In collegamento con Daria Bignardi, Civati ha tentato – a onor del vero – di raccontare l’esasperazione di questo Paese e, con ciò, di mostrarsene consapevole. L’ha fatto, tuttavia, nel peggiore dei modi possibili, mettendo assieme – a titolo di esempi – i fatti di Perugia e il suicidio di David Rossi, responsabile comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena, la cui notizia è giunta nel corso della trasmissione. Posso capire la difficoltà dovuta alla necessità di elaborare un commento a caldo, ma un esponente di spicco della principale forza politica del campo progressista non può permettersi uno scivolone del genere. Il piccolo imprenditore che crolla dopo quattro anni nei quali lo Stato gli ha voltato le spalle non può rientrare nella stessa categoria sociale di un dirigente suicidatosi nel pieno di una vicenda giudiziaria che coinvolge, assieme alla sua Banca, un pezzo importante del potere politico di questo Paese. Un’analisi che confonda a tal punto le cose rivela una miopia agghiacciante e fornisce ulteriori e fondati argomenti ai detrattori del PD.

EPISTEMOLOGIA A CINQUE STELLE

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Il dibattito sulla natura del Movimento Cinque Stelle è reso opaco dalla programmatica neutralità ideologica di questo soggetto politico. Tale neutralità consente a tutte le ideologie di non essere rilevate come tali al tornello d’ingresso e di poter dunque riversare all’interno del Movimento i propri progetti, affinché siano presi in carico da un vasto bacino di consenso, che ne risulta a sua volta alimentato. In termini strettamente politici, pertanto, si assiste al mero incremento di un fronte popolare costitutivamente indistinto, del quale si può dire e conoscere molto poco, ulteriormente schermato da una comunicazione iperbolica che ne dissolve l’identità sociale nella figura ombrello del “cittadino”.

A questa nebulosa politica soggiace tuttavia un’epistemologia molto precisa, di cui è utile individuare i termini principali.

Alla base del progetto di Grillo sembra esserci, in primo luogo, un realismo ingenuo, fondato sulla certezza che la verità delle cose, compresa la verità delle cose-da-fare, sia depositata nella loro evidenza. La politica, pertanto, è tanto migliore quanto più si mostra capace di rimuovere giornalisti, parlamento e, più in generale, tutti gli agenti che mediano l’accesso alla verità delle cose. Il linguaggio stesso, ove non sia usato come limpida designazione dell’esistente, è guardato con sospetto. L’unico strumento accreditato è la rete di internet perché, priva in se stessa di una linea editoriale, si configura come una lente neutra e trasparente, che aumenta ma non distorce le facoltà cognitive del cittadino.

L’interesse di parte è così rifuggito in nome della possibilità di sapere come stanno realmente le cose e, dunque, della possibilità di assurgere a garanti della realtà di tutti. Alla politica di destra e di sinistra si sostituisce così la politica delle idee giuste, che sono tali in quanto derivate dalla conoscenza della verità delle cose.

Il Movimento Cinque Stelle promuove la democrazia diretta come riflesso di un’altrettanto diretta accessibilità del Reale, che non giustifica nessuna mediazione fra il cittadino e lo Stato. Il punto di vista del singolo parlamentare non gode, in questo senso, di alcuna legittimità e di alcuna libertà. Il parlamentare è solo il terminale attraverso cui si trasmette – direttamente – la decisione del cittadino, che grazie alla rete conosce la verità delle cose. Ove non rispetti questo “mandato imperativo”, il parlamentare è da considerarsi destituito delle sue prerogative. 

In realtà, è il punto di vista in quanto tale ad essere screditato. L’accesso diretto alla verità delle cose, infatti, lo rende superfluo e, anzi, costitutivamente menzognero. Attraverso la rete, infatti, è garantita al popolo una prospettiva panoptica che esaurisce la realtà e supera tutti i punti di vista particolari, immagini di meri interessi di parte. La cifra totalitaria di questo progetto politico deriva allora dalla cifra totalitaria dell’epistemologia che ne è alla base, un’epistemologia che rifiuta di integrare il punto di vista all’oggettività delle cose viste, evacuando il primo dalle seconde e riconoscendo queste ultime nella loro vera, unica e sola natura.

Lungi dal rappresentare una novità, questo modo di intendere la politica e, a monte, la realtà stessa resuscita un pensiero che le scienze naturali, matematiche, umane e sociali avevano superato da tempo. L’epistemologia “grillina”, in questo senso, segna un grave arretramento rispetto a una conquista filosofica fondamentale, che ci ha permesso di assegnare al punto di vista, alla mediazione (nelle sue diverse forme e istituzioni) e al linguaggio l’irrinunciabile funzione di costituire, e non già di registrare, la realtà delle cose, determinando la misura in cui la loro verità conta e diventa pertinente nei nostri progetti.

Per quanto possa sembrare politicamente confuso, il Movimento Cinque Stelle, ricondotto alla sua epistemologia di base, è metafisica allo stato puro. L’ideale punto di partenza per ogni svolta autoritaria.

 

come fa una donna ad essere cattolica?

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Non provo nessuna empatia nei confronti delle donne che cercano di ritagliarsi un ruolo e una dimensione in seno a quella comunità di fedeli chiamata Chiesa. L’operazione passa spesso attraverso una rilettura dei testi sacri assolutamente pietosa, non già perché priva di una sua stiracchiata consistenza ermeneutica bensì perché condotta nel disperato tentativo di salvare capra e cavoli all’ombra dell’unica cosa alla quale non si può mai – davvero – derogare, all’ombra cioè del testo sacro stesso. Completano il quadro le figure femminili dell’immaginario religioso, figure che di realmente femminile hanno – in fondo – soltanto il nome.

L’intera impresa finisce per reggersi sul tentativo di mostrare che nel cattolicesimo – dai – un ruolo importante ce l’ha anche la donna e che questa bellissima e rassicurante novella sarebbe scritta e detta lì, in quegli stessi testi sacri che stando ad altre letture – assai più prodighe di fonti – sembrano invece più inclini a restituirci l’immagine di un essere che per mondarsi dalla propria costitutiva e peccaminosa natura non può far altro che figliare nel dolore. Un equilibrio instabile, più simile – in fondo – a una schizofrenia del paradigma imperante, diviso fra l’impossibilità contrattuale di recedere dall’offerta (il testo sacro) e la necessità di aggiornarne il pacchetto alla luce delle iniziative che assicurano audience e consenso ai progetti su larga scala (quote rosa, politiche di genere e quant’altro).

Comunque no, non provo nessuna empatia verso quelle donne che cercano – per queste vie – di ritagliarsi un ruolo e una dimensione nella comunità dei fedeli. L’appello a una presunta verità del testo sacro è tremendo, quasi che in fondo sia diritto esclusivo di quel testo (e funzione della sua interpretazione) stabilire quanto tu sia degna.

Lo chiedo a quelle donne. Cosa fareste, per esempio, se domani saltasse fuori che da qualche parte c’è scritto che dovete morire tutte quante cucite insieme una con l’altra? Cosa fareste, a quel punto, per salvare capra e cavoli?