Articolo 67. Questione politica o giuridica?

L’imbarbarimento della politica è compiuto. Me ne sono accorto ieri sera, quando ho commesso l’errore di assistere per pochi minuti a Ballarò. Si parlava dell’articolo 67 della Costituzione, punto ormai assodato del nostro ordinamento e che, tuttavia, è stato disgraziatamente rimesso in discussione da quel cialtrone di Grillo. In gioco, come tutti sanno, c’è il mandato del Parlamentare. Secondo l’art. 67 è vietato imporre a questo mandato un vincolo, è vietato cioè imporre al Parlamentare una condotta che non sia frutto, votazione per votazione, dei suoi liberi intendimenti. Come rilevano insigni costituzionalisti, l’art. 67 si è rivelato estremamente prezioso alla luce della prassi parlamentare consolidatasi negli anni, una prassi esposta in misura critica all’ingerenza delle segreterie di Partito. Facendo balenare il rischio di una “circonvenzione d’elettore”, Beppe Grillo ha invece attaccato la Costituzione, dicendo che essa consentirebbe al Parlamentare – in buona sostanza – di mentire, di venire meno al suo impegno con gli elettori, di tradire – in definitiva – il programma sulla base del quale è stato eletto. Questo, in sintesi, l’antefatto. Veniamo adesso all’imbarbarimento di cui sopra.

Durante la trasmissione, sono stati presentati i risultati di un sondaggio. Il campione, interpellato sulla questione dell’art. 67, risultava spaccato a metà. In quel momento, a onor del vero, ero affaccendato in un’altra stanza (già stomacato, mi scuserete, dalla presenza in studio di Lupi) ma sono abbastanza sicuro che di quei risultati sia stata data, più o meno, la seguente lettura: “il 50% ritiene che sia importante garantire l’adesione del Parlamentare al programma; il restante 50% crede sia più importante tutelarne la libertà”.

Perché dobbiamo ridurci a ragionare in questo modo? Dove sta scritto che l’alternativa sarebbe fra una soluzione nella quale il parlamentare rispetta onorevolmente il programma e una soluzione nella quale il parlamentare combina un po’ quel cazzo che vuole? Chi ha deciso, a nome di tutti, che le questioni devono essere affrontate riducendole alla loro versione intellettualmente più disonesta?

Chiunque, posto che se ne escluda un disturbo psichico di qualche tipo, si augura che il Parlamentare eletto nella lista votata onori e rispetti il programma sulla base del quale si trova in Parlamento. Ci si potrà dividere, semmai, sugli strumenti da usare affinché questo avvenga. La domanda, quindi, ve la giro io:

Quali cautele e quali misure volete adottare per garantire che il Parlamentare si impegni per realizzare il proprio programma elettorale? Volete che ci sia una disposizione, una legge, un articolo della Costituzione che gli impedisca, a prescindere dai suoi convincimenti, di venire meno a quanto pattuito con i propri elettori o volete piuttosto che spetti al suo Partito l’onere di selezionare e formare un ceto politico la cui qualità renda assolutamente inutile quel vincolo e, anzi, trasformi il libero mandato del Parlamentare in una risorsa?

Pensate, detto altrimenti, che la questione debba essere risolta per via giuridica, imponendo un vincolo, o per via politica, rilanciando con forza il rinnovamento dei partiti e il tema della formazione del ceto politico?

Preferite delegare alla legge un compito politico, imponendo un vincolo che garantisca la fedeltà del parlamentare anche se 1) il Parlamentare è un cretino e 2) il suo Partito non è in grado di presentare gente decente o, piuttosto, preferite delegare alla politica un compito normativo, inchiodando i partiti alle loro responsabilità sulla selezione del personale politico e, al contempo, garantendo al Parlamentare quella libertà dalla valutazione del cui esercizio sia possibile capire quanto il suo partito sia stato bravo e intelligente nel selezionarlo?

Non pensate che un vincolo di mandato, impedendo al Parlamentare di venire meno al suo programma, affranchi il suo Partito dai compiti in cui dovrebbe impegnarsi per portare in Parlamento una classe politica degna di questo nome?

Se una legge garantisce a me in quanto Partito (o Movimento) la fedeltà di quella persona, anzi di una qualunque persona, perché mai dovrei perdere tempo a selezionarla, a formarla, a coinvolgerla nel mio progetto politico, a farglielo sentire suo, a motivarla, a renderla protagonista e interprete cosciente del mio messaggio?

De Gregorio, in fondo, non è colpa del libero mandato; è colpa di Di Pietro.

E allora non si risolve la crisi della politica mettendo la politica nel congelatore dei vincoli, impedendole di sbagliare – certo – ma anche di crescere e di maturare. Non si combatte l’irresponsabilità togliendo le cose di cui occorre essere responsabili. La castità non è un contraccettivo. È la rinuncia alla nostra libertà.

È la fine.

EPISTEMOLOGIA A CINQUE STELLE

DIstrazione

Il dibattito sulla natura del Movimento Cinque Stelle è reso opaco dalla programmatica neutralità ideologica di questo soggetto politico. Tale neutralità consente a tutte le ideologie di non essere rilevate come tali al tornello d’ingresso e di poter dunque riversare all’interno del Movimento i propri progetti, affinché siano presi in carico da un vasto bacino di consenso, che ne risulta a sua volta alimentato. In termini strettamente politici, pertanto, si assiste al mero incremento di un fronte popolare costitutivamente indistinto, del quale si può dire e conoscere molto poco, ulteriormente schermato da una comunicazione iperbolica che ne dissolve l’identità sociale nella figura ombrello del “cittadino”.

A questa nebulosa politica soggiace tuttavia un’epistemologia molto precisa, di cui è utile individuare i termini principali.

Alla base del progetto di Grillo sembra esserci, in primo luogo, un realismo ingenuo, fondato sulla certezza che la verità delle cose, compresa la verità delle cose-da-fare, sia depositata nella loro evidenza. La politica, pertanto, è tanto migliore quanto più si mostra capace di rimuovere giornalisti, parlamento e, più in generale, tutti gli agenti che mediano l’accesso alla verità delle cose. Il linguaggio stesso, ove non sia usato come limpida designazione dell’esistente, è guardato con sospetto. L’unico strumento accreditato è la rete di internet perché, priva in se stessa di una linea editoriale, si configura come una lente neutra e trasparente, che aumenta ma non distorce le facoltà cognitive del cittadino.

L’interesse di parte è così rifuggito in nome della possibilità di sapere come stanno realmente le cose e, dunque, della possibilità di assurgere a garanti della realtà di tutti. Alla politica di destra e di sinistra si sostituisce così la politica delle idee giuste, che sono tali in quanto derivate dalla conoscenza della verità delle cose.

Il Movimento Cinque Stelle promuove la democrazia diretta come riflesso di un’altrettanto diretta accessibilità del Reale, che non giustifica nessuna mediazione fra il cittadino e lo Stato. Il punto di vista del singolo parlamentare non gode, in questo senso, di alcuna legittimità e di alcuna libertà. Il parlamentare è solo il terminale attraverso cui si trasmette – direttamente – la decisione del cittadino, che grazie alla rete conosce la verità delle cose. Ove non rispetti questo “mandato imperativo”, il parlamentare è da considerarsi destituito delle sue prerogative. 

In realtà, è il punto di vista in quanto tale ad essere screditato. L’accesso diretto alla verità delle cose, infatti, lo rende superfluo e, anzi, costitutivamente menzognero. Attraverso la rete, infatti, è garantita al popolo una prospettiva panoptica che esaurisce la realtà e supera tutti i punti di vista particolari, immagini di meri interessi di parte. La cifra totalitaria di questo progetto politico deriva allora dalla cifra totalitaria dell’epistemologia che ne è alla base, un’epistemologia che rifiuta di integrare il punto di vista all’oggettività delle cose viste, evacuando il primo dalle seconde e riconoscendo queste ultime nella loro vera, unica e sola natura.

Lungi dal rappresentare una novità, questo modo di intendere la politica e, a monte, la realtà stessa resuscita un pensiero che le scienze naturali, matematiche, umane e sociali avevano superato da tempo. L’epistemologia “grillina”, in questo senso, segna un grave arretramento rispetto a una conquista filosofica fondamentale, che ci ha permesso di assegnare al punto di vista, alla mediazione (nelle sue diverse forme e istituzioni) e al linguaggio l’irrinunciabile funzione di costituire, e non già di registrare, la realtà delle cose, determinando la misura in cui la loro verità conta e diventa pertinente nei nostri progetti.

Per quanto possa sembrare politicamente confuso, il Movimento Cinque Stelle, ricondotto alla sua epistemologia di base, è metafisica allo stato puro. L’ideale punto di partenza per ogni svolta autoritaria.