EPISTEMOLOGIA A CINQUE STELLE

DIstrazione

Il dibattito sulla natura del Movimento Cinque Stelle è reso opaco dalla programmatica neutralità ideologica di questo soggetto politico. Tale neutralità consente a tutte le ideologie di non essere rilevate come tali al tornello d’ingresso e di poter dunque riversare all’interno del Movimento i propri progetti, affinché siano presi in carico da un vasto bacino di consenso, che ne risulta a sua volta alimentato. In termini strettamente politici, pertanto, si assiste al mero incremento di un fronte popolare costitutivamente indistinto, del quale si può dire e conoscere molto poco, ulteriormente schermato da una comunicazione iperbolica che ne dissolve l’identità sociale nella figura ombrello del “cittadino”.

A questa nebulosa politica soggiace tuttavia un’epistemologia molto precisa, di cui è utile individuare i termini principali.

Alla base del progetto di Grillo sembra esserci, in primo luogo, un realismo ingenuo, fondato sulla certezza che la verità delle cose, compresa la verità delle cose-da-fare, sia depositata nella loro evidenza. La politica, pertanto, è tanto migliore quanto più si mostra capace di rimuovere giornalisti, parlamento e, più in generale, tutti gli agenti che mediano l’accesso alla verità delle cose. Il linguaggio stesso, ove non sia usato come limpida designazione dell’esistente, è guardato con sospetto. L’unico strumento accreditato è la rete di internet perché, priva in se stessa di una linea editoriale, si configura come una lente neutra e trasparente, che aumenta ma non distorce le facoltà cognitive del cittadino.

L’interesse di parte è così rifuggito in nome della possibilità di sapere come stanno realmente le cose e, dunque, della possibilità di assurgere a garanti della realtà di tutti. Alla politica di destra e di sinistra si sostituisce così la politica delle idee giuste, che sono tali in quanto derivate dalla conoscenza della verità delle cose.

Il Movimento Cinque Stelle promuove la democrazia diretta come riflesso di un’altrettanto diretta accessibilità del Reale, che non giustifica nessuna mediazione fra il cittadino e lo Stato. Il punto di vista del singolo parlamentare non gode, in questo senso, di alcuna legittimità e di alcuna libertà. Il parlamentare è solo il terminale attraverso cui si trasmette – direttamente – la decisione del cittadino, che grazie alla rete conosce la verità delle cose. Ove non rispetti questo “mandato imperativo”, il parlamentare è da considerarsi destituito delle sue prerogative. 

In realtà, è il punto di vista in quanto tale ad essere screditato. L’accesso diretto alla verità delle cose, infatti, lo rende superfluo e, anzi, costitutivamente menzognero. Attraverso la rete, infatti, è garantita al popolo una prospettiva panoptica che esaurisce la realtà e supera tutti i punti di vista particolari, immagini di meri interessi di parte. La cifra totalitaria di questo progetto politico deriva allora dalla cifra totalitaria dell’epistemologia che ne è alla base, un’epistemologia che rifiuta di integrare il punto di vista all’oggettività delle cose viste, evacuando il primo dalle seconde e riconoscendo queste ultime nella loro vera, unica e sola natura.

Lungi dal rappresentare una novità, questo modo di intendere la politica e, a monte, la realtà stessa resuscita un pensiero che le scienze naturali, matematiche, umane e sociali avevano superato da tempo. L’epistemologia “grillina”, in questo senso, segna un grave arretramento rispetto a una conquista filosofica fondamentale, che ci ha permesso di assegnare al punto di vista, alla mediazione (nelle sue diverse forme e istituzioni) e al linguaggio l’irrinunciabile funzione di costituire, e non già di registrare, la realtà delle cose, determinando la misura in cui la loro verità conta e diventa pertinente nei nostri progetti.

Per quanto possa sembrare politicamente confuso, il Movimento Cinque Stelle, ricondotto alla sua epistemologia di base, è metafisica allo stato puro. L’ideale punto di partenza per ogni svolta autoritaria.

 

In odore di comunicazione. L’illusione di un ventennio afasico che si piace poeta.

La chiosa peggiore che possiamo dare a questi ultimi vent’anni di politica italiana consisterebbe nel salutarli come un periodo in cui ci siamo perduti nel circo equestre della comunicazione. Non possiamo mentire a noi stessi in maniera più subdola.

Una tale conclusione non riflette nulla che esuli dalla presupposizione, purtroppo invalsa e prevalente, di una relazione dicotomica secca fra un “mercato marocchino” della Comunicazione, ricettacolo di ogni nefandezza, e una sorta di monolitica virtù intesa come dismissione omertosa di sè nella realtà.

A questa dicotomia va rinfacciata un’incosistenza grave, di diritto e di fatto, che le deriva dall’incapacità di spiegare come mai, storicamente, la lirica apotropaica del fattuale, cioè del dato che ci salva perché ci astiene dal dubbio sulla sua datità, abbia sempre fornito una giustificazione quasi gestaltica a chi ha voluto risolversi – non foss’altro che per l’insorgere di una crudele necessità poetica – in una comunicazione senza comunicato, in una convenienza reciproca.

Il peccato della comunicazione contrapposto alla virtù del fatto, per altro, definisce una relazione il cui carattere polemico non è morale, ma solamente percettivo. A livello morale vige, piuttosto, un nesso complementare: da un lato, non hai traccia della più sacrosanta fattualità se non grazie al fango che, comunicando, le getti sotto per dichiararne il passaggio attraverso l’orma (omertosa, certo, ma non sulla propria esistenza); dall’altro lato, i mondi fantastici provvisti dalla tua comunicazione, merci all’asta del mercato marocchino di cui sopra, non possono non incorporare sezioni o funzioni del fattuale, non essendoci data possibilità di produrre figure senza integrarvi (o senza costituirle attraverso) figure pregresse.

Gli ultimi vent’anni di politica italiana, lungi dall’essere stati il tripudio di una comunicazione dimentica del reale, possono essere letti – semplicemente – come una pessima gestione di quella relazione complementare. L’inemendabilità di questa relazione non ci avrebbe impedito di imporle un’etica; se non l’abbiamo fatto sono solo cazzi nostri. Non vi spieghereste, altrimenti, il senso, inerziale e vegetale, di afasia che vi trasmette il 90% dell’umanità, un percetto alquanto strano se fossimo – davvero – in preda a piene ed esondazioni della comunicazione.

Celata dal provvido rumore di chincaglieria prodotto dai tanti strumenti di comunicazione, la politica italiana si è pubblicamente arresa alla realtà, ha rinunciato a cambiarla, l’ha assunta come alfa e omega del proprio orizzonte. Se il Berlusconismo esprime qualcosa di più, in termini culturali, della semplice adesione alla vicenda politica di Berlusconi, questo qualcosa coincide con uno spietato realismo, filosofico e sociale, in cui chi detiene la realtà del potere impone il potere della sua realtà, senza che l’unilateralità di questa imposizione infici la solidità inconfutabile di ciò che per l’appunto impone: una realtà a tutti gli effetti e, in tutti i suoi effetti, normativa, non altrimenti operabile o riscrivibile. I discorsi affettuosi sull’ingenuità degli studenti che manifestano rivelano la profonda consapevolezza dell’ineluttabilità dell’esistente, che risuona in onda e fuori onda, on-line e off-line.

Negli ultimi vent’anni non abbiamo comunicato il mondo; abbiamo, semmai, prestato al Mondo (e ai dioscuri della sua ineludibilità) una miriade di media affinché ne apprendessimo che non valeva la pena di cambiarlo, affinché ci disinteressassimo a comunicare attorno ad esso, affinché ci volgessimo ad altro. Insomma: la comunicazione – dopo vent’anni – sarebbe una bella novità.